Viene da sorridere quando si ascolta l’attuale dibattito sull’autonomia regionale. Sembra di ritornare all’epoca pre-berlusconiana. Si tratta di una «secessione dei ricchi», pensano a sinistra e alla sua nuova veste grillina. Anche se con i numeri c’è poco da giocare: il residuo fiscale, cioè il contributo netto alla fiscalità generale (sottratte dunque le spese fatte in regione) di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna è pari a 100 miliardi. L’autonomia non sarà fiscale, se non in minima parte, ma anche se lo fosse sarebbe così sbagliata? Giulio Tremonti, quando ancora non aveva fatto il ministro, con Giuseppe Vitaletti nel 1994 pubblicò un saggio lucidissimo, terzo di un trittico inaugurato con Le cento tasse degli italiani e proseguito con La fiera delle tasse. Si intitola Il federalismo fiscale (Laterza).
«Nel sistema fiscale attuale – scrivevano i due autori – il centro prevale sulla periferia, lo Stato sul mercato, il formalismo sulla sostanza. In quattro parole: il complesso sul semplice». Più chiari di così… Ciò che stupisce è che in venticinque anni le cose non siano cambiate. Nonostante il tentativo di rendere più semplice la dichiarazione dei redditi, di ridurre la pressione fiscale e di dare una parvenza di autonomia impositiva agli enti locali, ciò che scrivevano all’epoca vale anche oggi. Nonostante, aggiungiamo, uno dei due autori abbia fatto il ministro oltre che del Tesoro anche delle Finanze. Buone idee, ma difficili da realizzare. E in fondo già in quel testo si capivano le difficoltà insormontabili che si sarebbero dovute superare.
Ci trovavamo e ci troviamo in un regime fiscale orientale, più che occidentale, «che è perfettamente coerente con il regime politico iniziato con la metà degli anni ’70 (il consociativismo): ne è l’effetto e insieme la causa. L’ideologia che lo ispira è la stessa che poi ha trionfato con il consociativismo: l’ideologia superstatalista». E aggiungevano che il passaggio dal vecchio regime al nuovo «non può essere fatto con una riforma fiscale interna a questo regime. E probabilmente non può essere fatto neanche da questo regime politico». Viene da chiedersi chi ne avrà mai la forza. «Per queste ragioni il cambiamento fiscale, se ci sarà, potrà solo essere rivoluzionario». Boom. «Il passaggio rivoluzionario necessario dovrà, in specie, essere passaggio verso una nuova costituzione fiscale, che ridefinisca il rapporto tra Stato e Mercato e tra Stato e territorio».
Il federalismo appunto. Ma perché tutto discende da un principio più reazionario che rivoluzionario, ci permettiamo di aggiungere. Attraverso l’idea della tassazione come l’avevano pensata i padri del pensiero economico liberale. E che i due autori sintetizzano magnificamente. «Oggi titolo prevalente del prelievo fiscale è il sacrificio e non il beneficio. La causa della tassazione è assiomatica, le tasse si pagano in forza di un principio astratto quasi incombesse sulla gente una maledizione, un vincolo di espiazione penitenziale, per il solo fatto di avere qualcosa». Occorre una tassazione più locale, meno sulle persone e più sulle cose, «perché così si collega al beneficio, al criterio del pagamento delle tasse in controprestazione di servizi efficientemente resi ed effettivamente fruiti e perciò così democraticamente controllati. Allontanandosi così dalla polarità opposta: dalla tassazione statale e sacrificale».
Tutto scritto 25 anni fa. Tutto straordinariamente attuale, anche perché nulla è cambiato.
Nicola Porro, Il Giornale 17 febbraio 2019