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Foibe, la sinistra dà la colpa dei massacri alle vittime

La scelta discutibile di ricordare insieme Shoah-Foibe la retorica del “se la sono voluta”

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A scanso di equivoci, ho trovato non poco discutibile la scelta del Municipio IX Levante di Genova di ricordare insieme la Shoah e le foibe “perché il sangue dei morti non ha colore”. La Shoah è un unicum nella storia non tanto per il numero di morti – certi regimi comunisti hanno ammazzato ben più di sei milioni di uomini – quanto per la motivazione che ne è stata data. Nell’abissale superficialità del linguaggio politico italiano, etnocidio, pulizia etnica, xenofobia finiscono per essere tutti sinonimi, un costume di casa, questo tutt’altro che innocuo giacché si presta facilmente alla criminalizzazione di quanti sono insensibili all’universalismo etico buonista (gente di destra ovviamente).

Le differenze, però, restano e notevoli! Il torinese degli anni Sessanta che “non affittava a meridionali” poteva essere odioso (e lo era) ma farlo diventare un potenziale aguzzino di Auschwitz poteva venire in mente solo a sociologi e filosofi impegnati nel bonificare le menti e nello sradicare i pregiudizi della vecchia Italia (quanti libri sugli italiani che ‘sono razzisti e non lo sanno’ e  sull’autorappresentazione indulgente e oleografica che danno di sé). Quel torinese, a ragione o a torto, non si fidava degli inquilini nati a sud di Roma, temendo che gli avrebbero tenuto l’appartamento in condizioni deplorevoli ma si sarebbe sentito onorato di invitare a cena il colonnello dei CC, proveniente da Potenza, e non avrebbe esitato a dare la mano della figlia a un professionista palermitano con lo studio a Piazza Castello. La sua era una forma classica di xenofobia da cui avrebbe potuto guarire leggendo nel vecchio Cuore il toccante episodio del bambino calabrese presentato ai suoi compagni di classe come ‘un italiano come voi’.(Edmondo De Amicis, con buona pace della buonanima di Umberto Eco, fu un grande educatore nazionale che non sempre riceve giustizia: in un lungo documentario televisivo su Torino Corrado Augias non lo ho mai citato!).

Ben diverso il caso della pulizia etnica, quella che portò milioni di Turchi e di Greci, in seguito alla politica di Kemal Ataturk, a lasciare la loro città e le loro case in modo che Turchia e Grecia fossero abitate solo da persone della stessa razza, lingua, religione. E una pagina ancor più nera della storia contemporanea furono i classicidi (stermini di classi sociali) di massa di Stalin, di Mao e del dittatore più efferato di tutti, Pol Pot, di cui si ricordano le piramidi di teschi dei ‘nemici del popolo’.

E tuttavia l’orrore della pulizia etnica e dello sterminio della classe sociale, la borghesia, colpevole di tutto il ‘malum mundi’ non equivarrà mai al genocidio della Shoah. Quest’ultima è unica proprio perché legata a una qualità indelebile, a un dato di natura – l’essere ebreo – al quale non c’era rimedio: per la prima volta nella storia gli uomini venivano sterminati non perché ‘nemici oggettivi’(come erano i Cartaginesi dei Romani) sacrificati alla ragion di stato di un impero più forte, non perché appartenenti a una classe sociale, che si sarebbe potuta ripudiare (prendendo la tessera del PC) o fedeli di una religione, che si sarebbe potuta abiurare (convertendosi alla Croce o alla mezzaluna), o membri di un ceppo linguistico, a cui  si sarebbe potuto rinunciare (dimenticando la lingua dei padri).

Si dirà che anche il  razzismo, di cui sono stati vittima gli afro-americani era legato a un dato indelebile – il colore della pelle – sennonché tale dato non fondava (tranne che per i fanatici del Sud, non a caso convinti neo-nazisti) nessuna “etica pubblica” sicché la discriminazione veniva avvertita come una vergogna nazionale (v. il libro di Gunnar Myrdal, An American Dilemma: The Negro Problem and Modern Democracy) che, generosamente, il presidente Lyndon Johnson tentò di cancellare anche con l’invio di truppe federali a protezione degli studenti di colore non ammessi nelle Università ’bianche’. In virtù di queste considerazioni hanno ragione quanti vogliono tener distinta la Shoah dalle altre performances delle potenze infernali del XX secolo.

Per approfondire:

La Shoah differente dalle altre infamie

E tuttavia occorre metter in guardia da un modo di sottolineare la ‘differenza’ – tra la Shoah e le altre infamie – che spesso si converte in un doppiopesismo etico non poco ripugnante. Qui, la parola chiave è “storicizzare”, riportare i fatti al loro contesto, chiudere l’aula del Tribunale in cui si giudicano i crimini di guerra e aprire il laboratorio dello storico, dove interessano più le ‘cause’ che gli ‘effetti’, le ragioni che hanno motivato la macelleria sociale che i volti deturpati, i corpi martoriati, le atroci agonie di vecchi, donne e bambini.

In un comunicato genovese redatto da Anpi e Cgil – la città ligure è sempre stata all’avanguardia dell’estremismo ideologico, peraltro oggi non più pagante sul piano elettorale – si legge” “Ricordare le foibe deve essere fatto nel solco della verità seguendo quindi la storia di cosa avvenne a partire dall’avvento del Fascismo nel nostro Paese e poi, così come ricorda anche la norma che istituisce il Giorno del Ricordo, quello che avvenne sul confine orientale tra l’Istria e la Dalmazia negli anni tra il 1943 e il 1947 anche a causa delle sue leggi. L’Anpi ha nelle scuole diversi incontri in definizione, mentre, ad esempio, la sezione di Isola del Cantone dedica nei giorni 10 e 11 febbraio una mostra a Fascismo, foibe, esodo: le tragedie del confine orientale”.

È la solita, perversa, retorica del “ricordiamoci anche quello che hanno fatto loro…” che interrompe la catena delle azioni e reazioni al punto che più fa comodo e, pur condannando la violenza (ci man-cherebbe altro!) finisce per “comprenderla”: “tout comprendre c’est tout pardonner” scriveva Mme de Stael in Corinne ou l’Italie. Il comunicato Anpi/Cgil finisce, del resto, con una citazione degna della filosofia dei suoi estensori: “Come scrisse nel 1996 Rossana Rossanda, giornalista e politica di origine istriana, non tiriamo in ballo i morti, che sono davvero fuori dalla storia, per far intendere che le colpe sono uguali. Perché così non è”. E invece è proprio così: “le colpe sono uguali”: l’agonia del bimbo armeno ammazzato dal calcio del fucile del soldato turco e quella del bimbo ebreo morto di fame e di freddo nel lager (il forno crematorio sarebbe stato meglio per lui) mettono sullo stesso piano etico e giudiziario i responsabili dei due delitti anche se, per le ragioni dette, le motivazioni ideologiche li hanno ispirate sono incomparabili, sono gli ‘effetti’ a ispirare ripugnanza e terrore, in quanti hanno conservato qualche scintilla di umanità.

Foibe, l’articolo del Domani

Che sia tipico della political culture italiana rivestire i panni dello storico quando si tratta dei ‘nostri’ e delle loro malefatte e la toga del giudice, quando si tratta dei delitti commessi dagli avversari politici

lo dimostra un lungo articolo pubblicato su “Domani” il 10 febbraio u.s., Solo facendo interagire memoria e spirito critico si evitano gli stereotipi. L’autore, Raoul Pupo – professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste e tra i massimi conoscitori dell’Esodo giuliano-dalmata e dei massacri delle foibe – non ha il candore ideologico di anpisti, landinisti e rossandisti ma anche lui vorrebbe trasformare il rito nazionale del “giorno della memoria” in un convegno storico, sovrapponendo la storia alla memoria: è la storia che spiega il vissuto, la memoria (percorso inverso a quello seguito dalla senatrice a vita che vuol sovrapporre la memoria alla storia: la storia è la memoria).

Pupo invita alla contestualizzazione sia diacronica che sincronica, delle tragedie degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. Diacronicamente, ciò vuol dire inserire la crisi del periodo 1943-1956 in una storia di più lunga durata che affronti necessariamente alcuni dei grandi nodi dell’età contemporanea: i processi di nazionalizzazione parallela antagonista in tutti i territori asburgici; il nesso fra irredentismi e politiche di potenza degli stati confinanti; la successione di regimi totalitari; l’escalation delle forme della violenza politica in relazione al mutato carattere delle guerre ed al venir meno, nella seconda, della distinzione fra militari e civili; le rivoluzioni ad un tempo nazionali e sociali; la divisione del continente in blocchi contrapposti. Sincronicamente, significa porre in relazione le stragi delle foibe con quelle perpetrate in Slovenia e Croazia nei medesimi giorni, tanto che gli eccidi di italiani nella Venezia Giulia appaiono come il margine occidentale della grande ondata di massacri di oppositori a qualsiasi titolo del movimento partigiano guidato da Tito, che nel maggio 1945 caratterizzò la Jugoslavia nel momento della cacciata dei tedeschi e dell’instaurazione del regime comunista: situazioni tutte dove nel decidere fra la vita e la morte la politica contava più dell’etnia, e ciò anche perché nelle Venezia Giulia dentro la criminalizzazione politica non stava solo la militanza fascista, ma anche la volontà di appartenenza all’Italia piuttosto che alla Jugoslavia, espressa a prescindere dalla stirpe di origine.

Altrettanto indispensabile appare la correlazione fra l’esodo dei giuliano-dalmati ed i grandi spostamenti forzati di popolazioni del tempo di guerra e dopoguerra, come quelli dei tedeschi, dei polacchi e degli ucraini, senza dimenticare il precedente della megali catastrofi, il collasso dell’ellenismo lungo le coste anatoliche agli inizi degli anni Venti del Novecento, che tante similitudini”.

Insinuare che se la sono voluta…

Il discorso è ineccepibile ma la storicizzazione è sospetta. Commemorare le vittime della barbarie significa idealmente dedicare ai morti una solenne funzione religiosa, dove le parole pronunciate dal pulpito evocano soltanto “memoria e dolore”: anche insinuare sommessamente: “però se la sono voluta o comunque hanno scontato le malefatte di altri” significa travisare il senso della cerimonia, “laicizzarla” o, più esplicitamente, politicizzarla. Non si irrompe nella chiesa di Civitella del Tronto dove si celebrano i soldati borbonici uccisi dai piemontesi, leggendo pagine di Rosario Romeo o di Giancristiano Desiderio  sulla vera ‘conquista del Sud’ e sulla realtà del brigantaggio.

Come storico, va riconosciuto, Pupo dà indicazioni metodologiche sulle quali non si può non essere d’accordo. Scrive: “Buona storia e buona politica La risposta però non sta nello stracciarsi le vesti, gesto che tranquillizza le coscienze politiche mentre moltiplica le retoriche. La risposta sta nella buona politica, nella buona storia e nella buona didattica. Di buona politica, l’esempio viene dall’alto, dai gesti di riconciliazione compiuti dai presidenti d’Italia, Slovenia e Croazia. Buona storia è quella che si cerca di fare incrociando le fonti e moltiplicando i punti di vista: ce n’è ormai tanta, basta leggerla. Buona didattica è il lavoro di un numero sempre più elevato di insegnanti |…|che inseriscono la ricorrenza all’interno di percorsi didattici coerenti; affollano le iniziative di aggiornamento proposte vuoi dal Miur vuoi dalla rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea; imparano ad usare una storia localizzata come slancio per affrontare le grandi strutture della contemporaneità nel vecchio continente”.

Giustissimo!  Usciti da chiese, sacrari e cimiteri, in cui si piangono i nostri morti, è così che dobbiamo essere super partes: “buona storia è quella che si cerca di fare incrociando le fonti e moltiplicando i punti di vista: ce n’è ormai tanta, basta leggerla”.

Condivido, pertanto, toto corde ma l’ineccepibile indicazione metodologica deve valere per tutti o solo per i ‘compagni che sbagliano’? Non dovrebbe riguardare anche il fascismo e gli altri regimi politici lontani dalla democrazia liberale? Dalle ‘attenuanti generiche ’garantite dallo storicismo e dalla ‘complessità’ vanno esclusi i nostri nemici ideologici? Nel caso delle foibe ci si ritrova col ritornello retorico: “esecuzioni spietate e condannabili, sì, ma non dimentichiamo che…”; nel caso dei delitti contro i partigiani commessi dalla Repubblica Sociale Italiana (per non parlare della Risiera di San Sabba) “c’è solo da invocare la ‘damnatio memoriae’ ed esporre le gesta repubblichine in un museo degli orrori. E se qualcuno poi cerca di spiegare le ragioni di una scelta di campo sbagliata – come Roberto Vivarelli nel racconto dei suoi anni giovanili a Salò—cala immancabile la fatwa del l’imam della Resistenza – nel caso Vivarelli, quella di Claudio Pavone.

Foibe, le responsabilità anche degli antenati di Landini

Un’ultima considerazione. Sul piano delle colpe per quanto è avvenuto sarà bene non limitarsi a ricordare solo i partigiani di Tito, che oggi non stanno certo nel cuore dei postcomunisti, divenuti, ormai, con la guerra in Ucraina i pasdaran dell’Occidente. Non dimentichiamo i non nobili antenati di Maurizio Landini, quei militanti della CGIL che a Genova non volevano far sbarcare i profughi istriani rei di volersi lasciare alle spalle il paradiso comunista jugoslavo. E non dimentichiamo, in genere, la pagina vergognosa scritta dal nostro paese che agli scampati alle foibe riservò una vita dura e stentata: erano profughi da un paese comunista? Quindi erano fascisti giacché un anticomunista non poteva non essere fascista! Su quanti intendevano abbandonare l’Europa satellite di Mosca Genova non è mai stata tenera.

Ricordo che, negli anni sessanta, in un teatrino molto colto, molto raffinato, molto impegnato culturalmente, La borsa di Arlecchino, si cantava “E se Berlino chiama, lascia che s’impicchi/crepare per i ricchi / non vogliamo più”, La Vo(lks)po(lizei) che sparava alle spalle dei tedeschi dell’Est fuggitivi non indignava nessuno e forse per quanti mettono in guardia dallo  ‘strumentalizzare politicamente le tragedie umane’, ricordare la spietatezza della Germania di Pankow oggi significa voler riportarci agli anni della guerra fredda, precludersi una comprensione storica degli eventi. Ancora una volta sui ‘compagni che sbagliano’ è meglio stendere un velo di silenzio.

Dino Cofrancesco, 11 febbraio 2023