Egregio ministro dello Sport, Andrea Abodi,
sono qui a segnalarle la tragica condizione dello sport amatoriale, con particolare riferimento al podismo, che è da tempo interessato da un preoccupante calo tanto nel numero dei praticanti che in quello delle competizioni che si svolgono in Italia.
Si tratta di un settore storicamente molto diffuso a livello popolare e che, sin dai suoi albori, ha sempre avuto nell’attività spontanea dei singoli e delle società aderenti ai cosiddetti enti di promozione sportiva il suo motore principale. Tuttavia, da quando nel Paese sono state introdotte misure burocratiche di stampo sovietico, sconosciute nel resto del mondo libero, il movimento podistico è stato oggetto di un accanimento normativo, allontanando decine di migliaia di praticanti, in contrasto con le finalità ultime che dovrebbero sostenere lo stesso sport amatoriale.
Sta di fatto che siamo gli unici al mondo ad imporre l’obbligo di una certificazione del medico sportivo e una tessera, con tanto di copertura assicurativa, anche solo per correre ad una sagra paesana; mentre ci si può iscrivere, firmando una semplice liberatoria, alle più importanti maratone del mondo, tra cui quella molto prestigiosa di New York.
Conosco personalmente tanti podisti italiani che vivono all’estero e che, tornati in patria per partecipare ad una delle nostre stracittadine, sono rimasti basiti di fronte alle norme bizantine che regolano questo e altri sport amatoriali. Basti dire, al fine di comprendere la folle ottusità su cui si fondano tali norme, che in triatleta che gareggia nelle famose Ironman – in cui tra nuoto, ciclismo e corsa si percorrono quasi 300 km in una volta – non potrebbe gareggiare in nessuna delle citate sagre paesane, dato che nel suo certificato medico non c’è scritto “atletica leggera”.
Ma non basta. Il colpo di grazia a ciò che restava del volontarismo che ha sempre animato in particolare gli aderenti ai suddetti enti di promozione sportiva, come l’Uisp, l’Endas, il Csi etc, lo ha inferto la famigerata runcard, introdotta dalla Federazione italiana di atletica leggera – braccio armato del Coni nel nostro settore – alcuni anni addietro.
Si è trattato di una funesta mossa del cavallo realizzata da chi rappresenta la mano pubblica nel podismo con l’unico scopo di fare cassa a discapito della grande platea degli appassionati, che all’epoca si stimava in oltre 300.000 tesserati.
Per farla breve, la Fidal stabilì d’imperio che nelle competizioni di un certo richiamo, tanto sul piano regionale che su quello nazionale, non bastava più la tessera di un Eps, ma occorreva affiancarla con tale runcard, a meno di non affiliarsi direttamente alla stessa Fidal.
Il risultato dell’introduzione della runcard, letteralmente “permesso a competere”, ha fatto si che un grande numero di società sportive e di loro aderenti passassero in massa sotto le “amorevoli” cure della Fidal, la quale impose sin da subito molti costosi paletti ai nuovi venuti. In pratica le società, oltre a doversi sobbarcare costi di affiliazione assai più onerosi rispetto a quelli richiesti dagli Eps, nella realizzazione delle competizioni hanno subito tutta una serie di condizioni capestro. In breve, a qualsiasi società affiliata con l’ente pubblico è interdetta la possibilità di organizzare a livello regionale una maratona, una mezza maratona, una grad di 10.000 metri ed un’altra di 5.000 metri. L’unico modo per farlo è di chiedere l’iscrizione di detta gara nel calendario nazionale della Fidal, versando una tassa salata di alcune migliaia di euro, aggiungendo un euro per ogni iscritto alla competizione.
Pertanto agli irriducibili podisti che non hanno subito il diktat della runcard, restando fedeli alle loro vecchie federazioni, era rimasta la possibilità di partecipare alle competizioni organizzate dai loro enti o da quelle patrocinate dalla Fidal al di fuori del calendario nazionale. Tutto ciò però, almeno secondo il discutibile punto di vista di chi rappresenta il Coni nel podismo, doveva essere subordinato alla firma di una convenzione, dalla durata variabile, tra i citati enti di promozione sportiva e la medesima Fidal. Convenzione che in questo momento alcuni importanti enti, tra cui l’Uisp e l’Endas, si rifiutano di firmare in un evidente, seppur assai tardivo, rigurgito di fiera dignità sportiva.
A questa mossa la Fidal nazionale, forte dei numeri ottenuti attraverso l’introduzione dell’orrendo lasciapassare sportivo, ha risposto inibendo dalle gare regionali tutti i podisti i quali, pur essendo in possesso degli stringenti requisiti di legge, siano tesserati con uno degli enti che ha osato non firmare la convenzione, alias patto leonino, con la Fidal.
Ora, a nome di tanti appassionati che vorrebbero liberare l’attività amatoriale da questa gabbia burocratica in cui pullulano sceriffi sportivi improvvisati, i quali sono arrivati in questi giorni a staccare il pettorale alla partenza delle gare ad atleti che erano semplicemente rei di non aver scelto la tessera “giusta”, ci permettiamo di sottoporle, caro Ministro, la seguente domanda: è accettabile una tale condizione in un Paese civile e democratico dell’occidente, governato per di più da forze politiche che si ispirano ai valori autentici del liberalismo?
Se l’attività fisica, come sostiene da tempo anche l’Organizzazione mondiale della sanità, rappresenta un fondamentale presidio di salute, tutto questo è compatibile con una diffusa ed equilibrata pratica sportiva di massa? Il rischio che noi liberali vorremmo evitare che si crei uno sport amatoriale di stato sul modello in voga nei Paesi del vecchio blocco sovietico. Le premesse, ahinoi, al momento ci sono tutte.
Claudio Romiti, 29 maggio 2024
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