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Funivia, tutte le falle del metodo manettaro

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Non staremo qui a stabilire l’innocenza di Luigi Nerini, Enrico Perrocchio e Gabriele Tadini. C’è tutto il tempo per capire cosa sia accaduto sulla funivia del Mottarone. È già il momento, invece, per sottolineare l’ennesima brutta figura della magistratura italiana e di un certo metodo manettaro che sembra puntare a sbattere in galera il prima possibile qualcuno. Alimentando così la fame di scandalo mediatico.

È davvero difficile in un Paese intrinsecamente giustizialista leggere le motivazioni con cui il Gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, ha smantellato dalle fondamenta l’inchiesta dei colleghi pm. Tutto sembrava andare per il verso giusto, in procura. L’indagine procedeva con le vele spiegate: pochi giorni dopo la tragedia, costata la vita a 14 innocenti, le toghe avevano già chiuso in cella tre persone ritenute responsabili del disastro. Bene. Bravi. Applausi da tutti. Addirittura il Corriere ha dedicato un pezzone strisciante per raccontare la “procuratrice in prima linea” al Mottarone, manco stesse lavorando su un caso di mafia. Insomma: i presupposti per trasformare gli inquirenti in santi e gli indagati in diavoli c’erano già tutti. Peccato che l’arresto sia stato eseguito “al di fuori dei casi previsti dalla legge”. Ripetiamo: al di fuori di quanto previsto della legge. Infatti Tadini è finito ai domiciliari, mentre Nerini e Perocchio sono tornati liberi.

Non vi pare scandaloso? A noi sì. Soprattutto se le dichiarazioni accusatorie del “reo confesso” Tadini contro gli altri due indagati sono definite “scarne” dal Gip. Soprattutto se al momento del fermo pare che a carico di Perocchio e Nerini vi fosse una “totale mancanza di indizi” che non fossero “mere, anche suggestive supposizioni”. I pm avevano immaginato un “pericolo concreto e prevedibilmente prossimo” di fuga (strumento largamente utilizzato per arrestare in modo preventivo i sospetti). E invece per il Gip non vi era “alcun elemento” dal quale fosse “possibile evincere” il rischio di allontanamento: uno ha confessato, il secondo ha chiesto (inutilmente) di essere sentito, il terzo si è messo a disposizione. Se avessero voluto, avrebbero avuto tutto il tempo di fare i bagagli e filarsela a Dubai. Tenerli in carcere per evitare che “concordassero una versione” non era dunque necessario.

Direte: è per questo che esiste il Gip. A lui spetta il compito di convalidare o meno il fermo disposto dai pm. Vero. Intanto però tre innocenti (lo sono fino alla fine del processo) si sono fatti quattro giorni di gabbia, e non è un’esperienza edificante. “La fretta di individuare i responsabili porta inevitabilmente a delle storture e crea la gogna mediatica”, dice Alberto De Sanctis, presidente della Camere penali piemontesi. Questo non significa che gli indagati siano innocenti o stinchi di santo. Ma cosa importa? In fondo non è questo il punto. Qui il problema è come i pm abbiano fatto ricorso all’arresto quando non vi erano i presupposti per farlo.

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