La politica è per certi aspetti un’attività simbolica. Ed è reale, anche e soprattutto nei suoi effetti, proprio nella misura in cui si serve di “forme simboliche” (per dirla con Ernst Cassirer). Nella politica c’è quindi spazio, per usare il linguaggio di un’altra attività ad essa più simile di quanto si immagini, quella religiosa, per miti, riti, liturgie, retoriche, ostensioni. Gli incontri del G20 fra i leader del mondo, che in parte sl sono sostituiti e in parte si sono sovrapposti a quelli del G7 (e a cui forse presto si assocerà un asse delle democrazie voluto da Joe Biden), si inseriscono in quest’ordine di discorso: non è certo in due giorni striminziti e formali che i leader e i loro Paesi prendono decisioni, che quando ci sono (raramente) sono solo la formalizzazione, anche visiva, di quanto gli sherpa e i negoziati (spesso anche bilaterali) hanno preparato attraverso un lungo e faticoso lavoro.
Cosa muove il G20
Alla retorica, e all’apologetica esortativa ed edificante, che è sempre stata una potente molla per l’azione e che perciò non va certo biasimata, appartiene sicuramente l’insistere che Mario Draghi ha fatto, in apertura del G20 romano, su un “mondo migliore” che si starebbe costruendo tutti insieme e, addirittura, su un “nuovo modello economico”: il che è francamente difficile intravedere sia perché il mondo è fatto di uomini, e quindi della vichiana “feccia di Romolo”, sia perché l’economia, come la vuoi e come la giri, è sempre mossa dagli interessi individuali e dei gruppi. Ed empiricamente e storicamente non sembra nemmeno che ciò sia stato e sia del tutto negativo. In ogni caso, fa parte tutto del gioco. E, a ben vedere, meglio che i leader si vedano e intreccino relazioni che non si facciano la guerra (che però è sempre una possibilità dietro l’angolo visto il “legno storto” di cui siamo fatti).
Il multilateralismo, l’Ue e Biden
La parola magica di questo vertice è stata “multilateralismo”, che da una parte attesta una realtà di fatto, l’esistenza di una figura geometrica che non è sferica come la terra su cui si espande ma ha molti lati, e dall’altra contiene una velata critica alla concezione abbastanza rude dei rapporti politici che aveva Donald Trump. Il quale non mascherava quella che è una realtà di fatto, e cioè che i grandi giochi geopolitici non passano più per l’Europa e che quindi un rapporto privilegiato degli Stati Uniti con noi è, ahimè, forse roba del passato. E poiché è stato, il secondo dopoguerra, per noi un buon passato, è meglio provare ad esorcizzare il cambiamento in questo modo. In verità, a ben scrostare la patina delle apparenze (che però in politica sono in qualche modo la sostanza) e delle retoriche si nota che Biden è stato, in questi mesi, non meno unilaterale di Trump: ad esempio, nel ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan; oppure, nel firmare un accordo con Australia e Gran Bretagna a discapito della Francia (Boris Johnson, capito l’andazzo, la sua partita la gioca ormai sui mari, in un tentativo, forse anche esso velleitario, di resuscitare la Global Britain). O, per converso, è stato proprio lui a firmare quegli “accordi di Abramo” che del multilateralismo sono stati una sorta di epifania.