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Gaza, il documento riservato: quello che non vi dicono sulla Striscia

Nazioni Unite ed Europa avevano finanziato un porto offshore in grado di dare piena occupazione ai cittadini. Ma i palestinesi lo respinsero

Porto di Gaza

È costato più di 230 milioni di dollari, e dopo appena due mesi di attività a singhiozzo che ha prodotto lo sbarco di provviste equivalenti a due giorni di razioni di cibo necessarie per sfamare la popolazione di Gaza, è stato prima danneggiato, quindi reso inutilizzabile dai deboli venti che spirano sul Mediterraneo, diventando l’ennesimo simbolo di un fallimento internazionale e nel caso specifico americano, nella Striscia di Gaza. Più che un pontile galleggiante si è rivelato un clamoroso flop, incapace di sostituirsi anche per un solo giorno alle colonne e ai convogli di camion che sino a oggi hanno scongiurato il rischio di una carestia della Striscia, sotto assedio da parte di Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas sul territorio israeliano.

A Gaza anche l’aeroporto che non c’è

Ma deve essere questo il destino scritto per le infrastrutture di trasporto di Gaza. Una sorte analoga è toccata anche a un monumentale aeroporto internazionale, costruito nella Striscia di Gaza grazie a generosissimi finanziamenti comunitari (in particolare olandesi e belgi), entrato in servizio nel giugno del 96 per fare atterrare un volo privato dal Cairo con un unico passeggero, Yasser Arafat, quindi utilizzato una quarantina di volte durante i negoziati di Oslo e poi abbandonato al suo destino per il rifiuto dell’Autorità nazionale palestinese di prevedere controlli di sicurezza congiunti con Israele (Gaza è a una settantina di chilometri a sud di Tel Aviv e Gerusalemme e voli incontrollati avrebbero rappresentato una comprensibile minaccia per lo Stato ebraico); fu definitivamente distrutto da bombardamenti dell’aviazione israeliana all’inizio degli anni 2000 in occasione degli scontri divampati nella Striscia.

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Queste due infrastrutture, il pontile per gli approvvigionamenti alimentari e l’aeroporto, forniscono una premessa straordinariamente emblematica al fallimento voluto di una occasione tanto storica quanto dimenticata (e ai più sconosciuta) per trasformare la Striscia di Gaza in una delle aree più ricche del mondo arabo, paragonabile in tutto e per tutto agli Emirati Arabi.

Il documento riservato porta la data di aprile 2004 ed è stampato sulla carta della Roger Williams University, in rapporto consulenziale con le Nazioni Unite. Un dossier il cui abstract è presentato in occasione della Inaugural International Conference of the Centre for Macro Projects and Diplomacy del 15 aprile.

Il progetto che avrebbe cambiato il Medio Oriente

Il documento dopo una analisi sulle caratteristiche morfologiche della Striscia, sulle condizioni economiche e sociali, si traduce in una proposta concreta che nei mesi successivi diventerà oggetto di una trattativa sul campo, otterrà il via libera da Israele ma sarà bocciata dall’Autorità nazionale palestinese.

Il piano si articola sulla realizzazione di una Zona franca industriale destinata  a collocarsi a cavallo fra le aree sud della Striscia di Gaza e le aree di confine del Sinai, appena restituito da Israele all’Egitto, vicino alla città costruita di Yamit costruita dagli israeliani sulla costa mediterranea del Sinai. In una prima fase il progetto che richiede l’autorizzazione del governo egiziano prevede l’affitto di aree desertiche egiziane per 40 km quadrati) a un Consorzio free industrial zone con governance palestinese. Nella fase iniziale la security (paradossalmente proprio nell’area successivamente utilizzata in modo intensivo per realizzare i tunnel di Hamas) è affidata agli egiziani ma nella zona industriale sono previsti 40.000 posti di lavoro con contratti a tempo indeterminato e altri 5000 fra manager, amministratori, tecnici.

Secondo lo studio Gaza occupa un angolo strategico del Mediterraneo, ha terreni a basso costo, un accesso preferenziale (allora) ai mercati europei e americano, basso costo di energia e materie prime, una posizione logistica eccezionale.

Una free zone fra la Striscia di Gaza  e il Sinai

L’investimento iniziale per la free zone,  è quantificato fra i 200 e i 300 milioni di dollari, ma il progetto si articola in tre fasi in grado di attivare una crescita record del Pil in Egitto e nella Striscia e una vera e propria escalation dei salari, rendendo l’economia di Gaza indipendente da Israele (prima del 7 ottobre erano circa 60.000 i frontalieri che ogni anno si recavano al lavoro in Israele e probabilmente in futuro, alla luce anche dei rapporti di intelligence sul loro coinvolgimento con i terroristi, questo fenomeno di lavoro frontaliero sarà azzerato).

La prima fase prevede la realizzazione di un’area industriale di 8 km fra Rafah e Yamit nel Sinai. La seconda fase contempla la costruzione di una pista aeroportuale sospesa sul mare collegata a una autostrada e a un aeroporto temporaneo da utilizzare come base per la fase tre. Ed è questa fase la più affascinante. La costruzione di un’isola artificiale di due chilometri quadrati per ospitare un grande porto container. Ogni infrastruttura è collegata e sinergica alle altre, nell’ambito di un progetto unico nel Mediterraneo destinato a fare della Striscia di Gaza la base operativa dell’interscambio commerciale via mare sulla rotta fra Asia ed Europa. Costo complessivo poco più di un miliardo di dollari.

Pieno impiego da industria, logistica e porto

Il risultato finale è clamoroso: pieno impiego nella Striscia per attività industriali, logistiche e marittimo-portuali. Sviluppo di un centro finanziario legato alla Free zone, sviluppo di commercio internazionale; crescita costante e utilizzo di lavoratori frontalieri egiziani, attività di ricerca e centri di formazione di alto livello.

Al progetto confermano da subito l’interesse aziende del settore automotive, grandi imprese di costruzione, società del settore dell’elettronica avanzata e del biomedicale, gruppi del settore energia e del comparto alimentare con un progetto parallelo di riutilizzo delle acque sotterranee di cui Gaza dispone tutt’oggi (Israele fornisce meno del 20% delle necessità idriche della Striscia)  per uno sviluppo a nord di agricoltura intensiva nonché della filiera turistica favorita da una delle più affascinanti spiagge del Mediterraneo.

Tutto finanziato dalla comunità internazionale. Tutto bocciato dall’Autorità nazionale Palestinese con il supporto di molti Paesi arabi.  Meglio i tunnel di Hamas.