Economia

Crisi energetica

Gazprom taglia il gas all’Italia: tre motivi per preoccuparci

Il governo prepara il piano di emergenza. Gli stoccaggi al 65% ma c’è l’incognita North Stream 1: riaprirà?

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Ci siamo cullati sugli allori un po’ come nei primi mesi del covid. Ricordate? Cantavamo sui balconi. Disegnavamo arcobaleni. Sorridevamo alla possibilità di stare un po’ in casa. “Andrà tutto bene” un corno. Non è andata affatto come speravamo. E non andrà bene neppure con la crisi del gas. Per mesi ci siamo convinti che sostituire il gas di Putin sarebbe stato un gioco da ragazzi. Che Mosca non avrebbe mai rinunciato a fornirci il metano per non perdere introiti. Che sarebbe bastato fare qualche viaggio a Tunisi, in Turchia, cercare un paio di navi rigassificatrici, rivedere qualche contratto. Niente di più sbagliato. E ce ne stiamo rendendo conto solo ora che mancano pochi mesi all’arrivo dell’inverno.

Gazprom taglia il gas all’Italia

La notizia di oggi è che Gazprom ha deciso di ridurre di un terzo la fornitura di gas all’Italia. Già nei giorni scorsi stava aprendo e chiudendo i rubinetti a singhiozzo. Ma oggi da 32 milioni di metri cubi al giorno è calato a 21 milioni. Dal punto di vista di Mosca, cambia poco o nulla: il prezzo del gas è salito talmente alle stelle che, rispetto alla situazione pre-guerra, Putin di sicuro non ci sta perdendo. Dal nostro punto di vista invece cambia eccome. I 32 milioni di metri cubi di gas al giorno erano già decisamente inferiore ai flussi dell’anno scorso. E l’Italia è impegnata a riempire a più non posso gli stoccaggi: al momento siamo a 6,1 miliardi di metri cubi al netto delle riserve strategiche, il che significa che siamo al 65% dell’obiettivo che il governo si era dato. Ce la faremo? Il ministro Cingolani si è sempre detto positivo. Snam sta facendo i salti mortali. Eni pure. Ma si tratta di una sfida non scontata: perché comunque il gas che stiamo comprando sempre da Putin, in larga parte, arriva.

La chiusura di North Stream 1

Bisogna anche considerare altri fattori.

1. Primo: oggi è stato chiuso per 10 giorni circa il Nord Stream 1, ovvero uno dei principali gasdotti che collegano la Russia alla Germania (55 miliardi di metri cubi all’anno). La motivazione riguarda la sostituzione di una turbina e lavori di manutenzione “programmati”. Per ripararla serve un pezzo che in arrivo dal Canada, ma ci sono state complicazioni a causa delle sanzioni. Di sicuro c’è che per 10 giorni il flusso di metano verrà rallentato e impatterà su tutta Europa (l’Austria segnala un -70%), sia sul prezzo che sugli stoccaggi. Inoltre, resta una domanda in sospeso: i russi ne approfitteranno per chiudere del tutto i rubinetti del gasdotto o lo riapriranno come promesso? “È difficile prevedere cosa farà la Russia dopo il 21 luglio”, dice il governo tedesco. “Dobbiamo essere preparati allo stop totale”, ribadisce Bruxelles. E non sono buone notizie. Il rischio, calcola la Commissione, è che la crescita europea vada in territorio negativo.

Il piano italiano contro la crisi del gas

2. Secondo fattore: la riduzione dei flussi fa aumentare i prezzi. Prezzi già lievitati per altri motivi, tra cui anche l’obbligo imposto dall’Ue di riempire gli stoccaggi al 90%. Tutto questo mette in difficoltà principalmente i Paesi occidentali, colpiti da inflazione galoppante e costretti a intervenire con risorse statali per mantenere a livelli accettabili le bollette di aziende e famiglie. Ad oggi Draghi&co hanno già stanziato la cifra monstre di 30 miliardi di euro, alcuni dei quali in bonus a pioggia inutili. Di tetto al prezzo del gas per il momento non se ne parla, e dunque occorre arrangiarsi.

Non è un caso se il governo sta pensando ad un piano di emergenza per l’inverno. E parliamo di un piano vero, non di sciocchi parallelismi tipo “preferite la pace o il condizionatore”. Rimanere senza gas non significa solo sorbirsi un po’ di freddo in casa. Significa mettere in difficoltà le aziende, fermare le fabbriche, mandare interi settori fuori mercato. Il piano italiano prevede il “razionamento” di gas per le aziende energivore, l’aumento dell’uso di centrali a carbone (ciao ciao ambientalismo), riscaldamento più contenuto (2 gradi in meno e riduzione degli orari) e forse lampioni spenti a notte fonda. Tutto dovrebbe servire ad arrivare a fine 2023 o inizio 2024 quando, forse, le importazioni da altri Paesi e il gas liquido (GNL) riusciranno a sostituire gli idrocarburi di Putin.

La Russia guarda alla Cina

3. Terzo e importante dettaglio: nei giorni della decisione europea di “staccarsi” da Gazprom (che gli forniva il 44% del fabbisogno), i leader Ue assicuravano che la Russia sarebbe finita sul lastrico senza sapere a chi vendere il gas. Non è proprio così: andrà in difficoltà, forse. Ma si sta muovendo. Per capirlo bisogna andare in Cina. L’anno scorso Pechino faceva a gara con altri Paesi per comprare Gnl dagli Stati Uniti, ma dall’invasione dell’Ucraina in poi gli acquisti si sono ridotti al lumicino: la Cina sta comprando sempre più metano da Mosca.

In fondo ad aprile Putin aveva chiesto alle sue compagnie energetiche di “reindirizzare le nostre esportazioni verso il mercato in crescita del Sud e dell’Est”. Cina e Russia stanno già cooperando sulle infrastrutture. Dal 2014 è in costruzione un gasdotto che colleghi i giacimenti russi a Pechino: a suo tempo l’accordo valeva circa 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno, già saliti di altri 10 miliardi dopo il recente incontro tra Xi Jinping e Putin. Il sogno russo è quello di aggiungere altri 50 miliardi di metri cubi tramite un altro gasdotto in fase di negoziazione.

Dunque, piccola domanda finale: siamo sicuri che andrà tutto bene?

Giuseppe De Lorenzo, 11 luglio 2022