L’ultima tentazione di Giorgetti. Il ministro dell’Economia sta perdendo la sua tradizionale flemma. È stufo e, questa volta, dopo i suoi tanti penultimatum, pare stia davvero apparecchiandosi un piano B, una exit strategy: salutare, pare già dopo le elezioni europee, questo governo ad alta tensione per tornare a seguire in pace la sua squadra di calcio del cuore, il Southampton che, per consolarlo, ha vinto venerdì sera 3 a 1 contro il West Brom.
È successo tutto in una escalation di soli quindici giorni: gelo con i cosiddetti guru economici di Palazzo Chigi (Fazzolari, Caputi, Filini e Loiero), pesci in faccia prima con Tajani sul Superbonus e poi con Crosetto per le spese militari. Per molto meno nella vituperata Prima Repubblica caddero governi, uno fra tutti quello Spadolini, andato a fondo per una divergenza tra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta ed il ministro delle Finanze Rino Formica ribattezzata come la «lite delle comari». Sul Superbonus, il ministro dell’Economia è stato costretto ad una brusca virata dopo che aveva partecipato al varo del maxi-incentivo oggi abiurato, da ultimo come ministro dello Sviluppo Economico con Draghi e, prima ancora, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Conte. Mentre sulle spese militari ora rischia di far passare l’Italia da voltagabbana, pretendendo di ribaltare la tradizionale postura euro-atlantista e causando una vera e propria fibrillazione internazionale.
Rissa vera, poi, su quel che resta dell’Abi, dopo l’inutile riconferma di Antonio Patuelli, uno dei tre «porcellini» nell’era del Partito Liberale, priva di coraggio nel non voler commissariare la Fondazione Cassa Risparmio di Torino dopo la poco sabauda spartizione di poltrone da parte dei consiglieri che ha provocato le dimissioni di Fabrizio Palenzona. Infine, nessuna voce in capitolo sulle grandi nomine, dalla Guardia di Finanza fino a Cassa Depositi e Prestiti dove, sulla carta, avrebbe dovuto avere un ruolo determinante, così come nella telenovela Tim-Kkr. E, se ciò non bastasse, il suo inner circle si trova in confusione, con il capo di gabinetto – il figlio d’arte Stefano Varone – che vuole levare le tende per una partecipata pubblica e la zarina bionda Daria Perrotta che scalpita per prenderne il posto.
In verità l’attuale capa del legislativo al Mef preferirebbe la poltrona di Ragioniere Generale dello Stato dell’ormai inviso Biagio Mazzotta, l’ultimo grande «Monorchio boy» accusato ingiustamente di non aver previsto la voragine del Superbonus, «gentile omaggio» del governo Giuseppe Conte, avallato anche da SuperMario Draghi che, evidentemente, nella sua grandezza si era distratto, con la testa al Quirinale. In realtà, alla poltrona di Mazzotta, qualora venisse immeritatamente rimosso – sebbene l’ala protettiva del Quirinale finora non lo abbia permesso – aspira da sempre Alessandra Dal Verme, la cognatina preferita di Paolo Gentiloni che all’Agenzia del Demanio, pur dando il meglio di sé, non riesce proprio a farsi apprezzare. L’eventuale arrivo della Perrotta sarebbe però possibile grazie ad una famigerata legge del 1993 – voluta da Franco Bassanini – che ha completamente stravolto l’organizzazione dei vertici delle Amministrazioni pubbliche con lo spoil system.
Se infatti prima di tale provvedimento si veniva nominati con delibera del Consiglio dei Ministri e i dirigenti svolgevano le loro funzioni fino all’eventuale revoca, oggi per i superburocrati è previsto un avvicendamento per cui, ad ogni nuovo governo che si insedia, come nel gioco dell’oca, si riparte daccapo. Lo spoil system vale per tutti, nessuno escluso: Ragioniere Generale dello Stato, Direttore Generale del Tesoro, Segretario Generale della Farnesina e della Difesa, Capi Dipartimento, ecc… Ma lo sconforto di Giorgetti, tanto onesto, timorato di Dio e preparato quanto sfiduciato, è più che comprensibile, vista la situazione della finanza pubblica. Servono 20 miliardi per rifinanziare il cuneo fiscale e gli sgravi Irpef. A questi si aggiungerà la raccomandazione del taglio di 5 miliardi di deficit che, puntualmente, arriverà dalla Commissione europea il 21 giugno: un incubo per la campagna di comunicazione del «va tutto bene» di Giorgia Meloni.
L’unica soluzione trovata dal commercialista di Cazzago Brabbia – dopo aver fatto rivoltare nella tomba Enrico Mattei per avere venduto il 2,8% dell’Eni che assicurava dividendi crescenti annui da oltre 100 milioni di euro – è stata quella di stracciare i patti con i cittadini con l’introduzione di norme retroattive che pare hanno fatto sobbalzare il neopresidente di Confindustria Emanuele Orsini, imprenditore concreto con la fissa (Deo gratias!) dello stato di diritto non solo per i cittadini, ma anche per le imprese.
Politicamente Giorgetti, è diventato più trasformista di Zelig: fin dal principio, ha sostenuto che la Lega si dovesse avvicinare al Partito Popolare Europeo, ma continua ad appoggiare Matteo Salvini con la sua vicinanza alla Le Pen; ha votato in aula per la riduzione del numero dei parlamentari, ma ha annunciato il voto contrario al referendum costituzionale; sostiene l’uninominale secco, ma ha votato la legge elettorale di Calderoli (Porcellum). Allo stato dell’arte, in caso di una gettata di spugna di Giorgetti, Giorgia Meloni, se vuole davvero testardamente evitare qualsiasi rimpasto di governo per arrivare alla fine della legislatura con la stessa squadra di partenza, ha una carta in mano.
Al Mef è pronto un avvicendamento soft con il vice Maurizio Leo. In attesa dei correttivi alla riforma fiscale approvata in fretta e furia, il Giorgetti in fuga una cosa l’ha fatta: la marea di accertamenti che stanno piovendo sulle spalle degli italiani. Piove sempre sul bagnato.
Luigi Bisignani, 19 maggio 2024
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