Reportage

Giorno 13 – Cosa mi ha insegnato il mare

La traversata atlantica vissuta giorno per giorno: avvistiamo terra

diario di Tia 1

Il nostro turno di guardia è stato spostato dalle 22 a mezzanotte ormai da due giorni. Mi dispiace un po’: avevo preso il ritmo e mi piaceva svegliarmi nel cuore della notte, essere in prima fila per assistere al sorgere del sole. Ora avanziamo ancora a motore, a una media di 10 nodi.

La notte è calma e il nostro turno si conclude senza imprevisti. La terraferma è sempre più vicina. Quando ci sveglieremo, potremo finalmente vederla.

Stanotte non sono riuscito a chiudere occhio. Quando una partenza è imminente, faccio fatica a rilassarmi.
Così, invece di lottare contro l’insonnia, ho deciso di dedicare quelle ore a rivivere ogni istante di questo viaggio. Mi aggrappo a ogni emozione, temendo che, al primo passo sulla terraferma, possano svanire dalla mia mente come un sogno al risveglio.

Verso le nove del mattino, Lucas entra in cabina. “Ci siamo. Si vede!” mi dice. Esco e la intravedo all’orizzonte: una piccola forma scura adagiata tra le nuvole, simile a un sasso che spunta dal nulla. Rimango lì, immobile, a guardare quel puntino che,
piano piano, diventa più grande e nitido. È un’emozione intensa, che mi lascia senza parole.

Giorno 13

Davanti a me, la terraferma che si avvicina sempre più; dietro di me,
verso poppa, l’immensità dell’oceano che abbiamo attraversato. Nella mia mente rivedo le luci ancora addormentate del porto di Mindelo, il giorno della nostra partenza.

Mi siedo sul ponte e resto lì, a osservare. La terra prende forma lentamente: le nuvole si dissolvono e iniziano a distinguersi i contorni delle colline, le case, le barche. La civiltà, che abbiamo lasciato alle spalle tredici giorni fa, si manifesta davanti ai miei occhi con il suo ritmo e i suoi colori.

Più ci avviciniamo, più questa piccola isola mi affascina. In lontananza vediamo il “Rocher du Diamant”. Le colline sembrano uscite da un cartone animato giapponese: piccole, alte, dalla forma perfetta, di un verde vivido. Il mare brilla e si tinge di sfumature accese; il turchese accarezza spiagge bianche che si intravedono in lontananza.

Dopo aver navigato 3.000 miglia (800 da Tenerife a Capo Verde in 5 giorni, e altre 2.200 da Capo Verde alla Martinica in 13 giorni), con una media di 7,5 nodi e una punta massima di 16,3, posso finalmente dirlo: ho attraversato l’oceano Atlantico.

Ci dirigiamo verso Le Marin, una delle marine più grandi dei Caraibi, rifugio naturale in caso di uragani. Non avendo un posto barca, gettiamo l’ancora in rada, accanto a tante altre imbarcazioni che, come noi, hanno completato la traversata. A mezzogiorno, sento finalmente il rumore dell’ancora che si tuffa nell’acqua turchese, calda, a 29 gradi. Non resisto: mi lancio in mare e mi godo ogni istante di quel bagno rigenerante.

Non sono un grande appassionato di rum, ma qui è sacro, e un punch per celebrare l’arrivo è d’obbligo. Lo condividiamo come aperitivo prima di mettere piede a terra per andare a pranzo. Togliamo tutte le protezioni montate per la traversata: teli antivento, copri cuscini. La barca ritrova la sua bellezza essenziale.
Caliamo il tender, ci imbarchiamo e ci dirigiamo verso terra, attraversando una moltitudine di barche di ogni forma e dimensione. Ci sono yacht modernissimi accanto a vecchie barche a vela, alcune così malconce che sembrano uscite da un’epoca piratesca.

Attracchiamo il tender al molo e finalmente tocchiamo terra. Fred ci porta in un piccolo ristorante vicino al porto, un posto dove è di casa.
Il pranzo è buono e allegro, anche se il mal di terra, o forse il rum, comincia a farsi sentire. Il tempo, però, stringe: Lucas e io abbiamo un volo da prendere.

 

Torniamo alla barca per l’ultima volta.
Scendiamo in cabina, finiamo di fare le valigie, sistemiamo i letti e salutiamo quella che è stata la nostra tana, rumorosa e incredibilmente calda, per queste settimane.

Il resto dell’equipaggio ci aspetta sul ponte per salutarci. È un momento emozionante, anche se ci conosciamo da pochi giorni. La traversata, con tutto ciò che comporta, crea legami forti, difficili da spiegare. Abbraccio Fred e lo ringrazio di cuore per tutto: per averci ospitati, per la sua professionalità, per la calma e il sorriso con cui ha gestito ogni situazione.

È arrivato il momento di salire in taxi e dirigersi verso l’aeroporto. Il nostro aereo decolla puntuale, alle 20:45. Siamo rimasti solo 8 ore e 45 minuti in Martinica.

E va bene così.

L’obiettivo non era mai il punto di arrivo, ma il viaggio stesso.
Sul monitor davanti a me appare la mappa del mondo, con la rotta e il tempo di volo: 7 ore e 45 minuti. Guardo in basso, oltre il finestrino, e vedo il grande blu che abbiamo lasciato solo poche ore fa. Un oceano che ora riattraverserò in una frazione del tempo.

Mentre il volo prosegue, rifletto.
Mi rendo conto che allontanarsi da tutto ti riporta all’essenziale, ti avvicina a te stesso. Questo viaggio mi ha insegnato ad affrontarmi, a sopportarmi, e a capire che, in fondo,
la convivenza con me stesso non è poi così male.

Capisco che questa traversata è stata molto più di un’esperienza fisica.
È stata, prima di tutto, una traversata interiore, un viaggio nell’oceano della mia anima. Ho navigato tra le correnti del passato, cavalcato le onde del presente, e guardato con nuovi occhi l’orizzonte incerto del mio futuro.

Ora so che la vita è come un mare aperto: non posso controllare i venti,
ma posso decidere come orientare le vele.

Cercherò di guidare la mia barca al meglio, con gli strumenti che ho,
sfruttando i venti favorevoli e affrontando le tempeste che incontrerò lungo il cammino.

E forse, un giorno, sarò davvero capace di guidare non solo la mia barca, ma anche me stesso. Sarò in grado di raggiungere porti sicuri, con la certezza di aver trovato la mia rotta: quella giusta, quella mia.