Giorno 2 – La notte di guardia, nelle mani del vento

La traversata atlantica vissuta giorno per giorno. Le onde tormentano il sonno dei marinai, il caldo rende difficile dormire. E i capricci di Eolo ci costringono a “barare”

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il diario di Tia

Il mio amico Tia, un ragazzo italiano che ha tanta voglia di fare e che tanto fa, ha deciso di prendersi una pausa. Non è una questione di poterselo permettere, è questione di volerlo. Quindici giorni solo lui, un paio di colleghi di avventura e la traversata atlantica in mare. In questo diario ci regala le sue sensazioni. Non siamo con lui in barca, ma ogni giorno è un po’ come se lo fossimo.


Giorno 2 – Yves

La sveglia suona. Ma non ce n’era bisogno.

Sono già sveglio dalle 2:30, tormentato dal suono delle onde che si infrangono con violenza contro la scafo. Il loro rumore è spaventoso, quasi insopportabile. Sembra che la barca stia per cedere, squarciarsi da un momento all’altro, come un foglio di carta strappato con forza. È come se l’oceano la stesse afferrando da ogni estremità, deciso a spezzarla. Non è certo un concerto rassicurante, né particolarmente favorevole al sonno.

Ho provato a soffocare le paure con i tappi per le orecchie, ma non è servito a nulla. La paura, trova sempre il modo di infilarsi attraverso ogni spiraglio, per quanto minuscolo.

Sono già seduto sul letto, completamente sveglio. Lucas, invece, si sveglia lentamente. Sembrava dormire profondamente, beato lui. È alla sua terza traversata oceanica, e la prima l’ha fatta su una barca a vela classica di appena 11 metri, insieme ad altri sei marinai. Per lui, questa notte è probabilmente un sogno in confronto a quelle vissute in passato.

Io, invece, sono già pronto. Indosso i miei bermuda blu, una t-shirt blu (questa volta messa correttamente), una felpa con cappuccio grigia e un cappellino di lana verde scuro.

Saliamo sul flybridge per iniziare il nostro turno di guardia. La coppia che ci precede ci accoglie con un misto di stanchezza e sollievo. Ci avvertono che, secondo l’AIS, il radar di bordo, una piccola barca a vela di circa 10 metri si trova a meno di 10 miglia a tribordo. “Tenete gli occhi aperti”, ci dicono, prima di salutarci e ritirarsi finalmente per godersi il meritato riposo.

La notte è serena. La luna è in fase calante, e tutto appare più scuro, più misterioso.

Nei giorni precedenti, con la luna crescente, sembrava quasi giorno, la visibilità era perfetta, il mare illuminato da un chiarore magico. Ora, invece, cielo e mare si fondono in un’unica massa indistinta di buio. Quando arriverà la luna nuova, sarà un’oscurità totale, e l’unica guida saranno le stelle, luminose e immobili, a indicarci la rotta.

Il mare, sorprendentemente, si è calmato.

È come se avesse atteso che uscissimo dalla cabina per placarsi, come un bambino dispettoso che si tranquillizza appena capisce che il suo gioco non ha più effetto. Una tregua silenziosa, quasi rispettosa, sotto questo cielo stellato.

Il nostro turno è tranquillo. Della piccola imbarcazione segnalata non c’è più traccia, e l’unico segno di vita è quello dei flyfish che si alzano in volo al nostro passaggio. Mi avevano detto che la barca si sarebbe riempita di questi pesci volanti, ma forse il nostro scafo, più alto rispetto a quello di una barca a vela classica, li tiene lontani. Il loro volo è breve, si alzano di pochi centimetri, al massimo un metro, e rimbalzano sull’acqua proprio come i sassi che lanciavamo da bambini per farli saltare più volte.

Controlliamo la velocità.

Il vento è calato, ma la barca si mantiene stabile su una media di 6,5 nodi. Il comandante ci aveva detto di svegliarlo se fossimo scesi sotto i 5 nodi, per ammainare le vele e accendere i motori. Per fortuna, non ce n’è bisogno, Fred può continuare a sognare indisturbato.

Mi tornano in mente i miei turni del mattino, dalle 7 alle 9, durante la tratta da Tenerife a Capo Verde. Mi sedevo sul ponte a osservare il sole sorgere, un momento che rendeva l’alba il momento più bello della giornata. Ma ora, alle 6, il sole non è ancora sorto, e quando il comandante arriva per darci il cambio, il cielo custodisce ancora gelosamente le sue stelle.

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Scendiamo in salone per compilare il giornale di bordo. Annotiamo l’ora, la posizione, la rotta e la velocità della barca. Fatto questo, torniamo in cabina con l’intento di recuperare qualche ora di sonno. Il mare è calmo, come se avesse deciso di concedere una tregua alla barca e a noi. Finalmente, liberati dal frastuono incessante delle onde, possiamo lasciarci cullare dal silenzio e trovare pace.

L’aria condizionata su questa barca è alimentata dai generatori, che a loro volta funzionano grazie al carburante. Cerchiamo di accenderli il meno possibile, prima di tutto per ridurre l’inquinamento e, in secondo luogo, per risparmiare carburante. Non si sa mai quanto vento avremo per spingerci verso la nostra meta, e potremmo aver bisogno dei motori.

Ci spostiamo sempre più a ovest, e il caldo cresce di giorno in giorno. La nostra cabina, posizionata a babordo, è costantemente accarezzata – o forse tormentata – dal sole. Dopo le onde, è proprio lui, il sole, a svegliarci con il suo caldo soffocante, ricordandoci che, in mare aperto, il riposo è un lusso raro.

Oggi non si pesca. Abbiamo ancora i resti del Mahi Mahi che abbiamo catturato ieri, e che oggi il comandante preparerà al forno. Del resto, con la t-shirt indossata nel verso giusto, sapevo già che non avremmo preso nulla.

Mi accorgo che abbiamo ancora issata la bandiera di cortesia di Capo Verde. L’ho ammainata e tolta, portando via con lei l’ultimo legame con la terraferma.

Il silenzio del mare è rotto dal fastidioso rumore della randa, che inizia a sbattere come se, stanca dell’attesa, cercasse da sola di catturare il vento. Siamo scesi sotto i famosi 5 nodi, praticamente fermi, in stallo, impotenti di fronte ai capricci di Eolo, che oggi ci ha abbandonati, lasciandoci privi della sua forza per proseguire.

Alla fine, non ci resta che ammainare le vele e accendere i motori.

Ho iniziato a leggere “Il Robinson dei Mari” di Yves Parlier. Parlier è un velista francese, amico fraterno di Eric Tabarly, e ha partecipato due volte alla Vendée Globe, la leggendaria regata intorno al mondo in solitaria, senza assistenza e senza tappe.

Durante la sua ultima partecipazione, mentre era in testa alla gara, ha spezzato l’albero della barca a sud della Nuova Zelanda. Riuscì a trovare riparo nelle Isole Stewart e, con appena 200 grammi di colla e tanto ingegno, ricostruì il suo albero in carbonio, riprendendo e portando a termine il suo viaggio. Una sorta di MacGyver dei mari.

Leggere il suo libro mi fa viaggiare, ma leggerlo qui, in mezzo all’Atlantico, nel suo giardino, è un’emozione unica. Con tutto il rispetto e mantenendo le giuste proporzioni, anche io,
in un certo senso, sto vivendo la mia Vendée Globe.

In queste lunghe giornate ho riscoperto il piacere della lettura e, quasi senza accorgermene, ho trovato sollievo e libertà nella scrittura.

Il resto della giornata scivola via lentamente, lasciando un retrogusto amaro. Accendere i motori mi fa sentire come se stessi barando, come se tradissi l’essenza stessa della navigazione a vela.

Eppure, restare fermi non è un’opzione. Come Yves, dobbiamo continuare, dobbiamo andare avanti.

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