Perdonami Nettuno. Mi sveglio di soprassalto. Non ho sentito la sveglia, ma ormai il mio corpo è abituato a questi ritmi. Guardo l’orologio: sono le quattro in punto. Infilo rapidamente un paio di bermuda e una t-shirt bianca e salgo sul flybridge, dove Lucas mi aspetta. È già lì, pronto per il nostro turno di guardia.
Il vento si è spento nella notte. La depressione a nord ce lo ha rubato, lasciandoci schiavi dei nostri motori. La tempesta che aspettavamo con un misto di ansia e timore non si è ancora manifestata, e forse è meglio così. Chi era di turno prima di noi ha ammainato le vele e acceso i motori: ora seguiamo una rotta diretta verso la Martinica, 280 gradi. Avanziamo lenti, a 6,5 nodi.
Al mattino, appena apro gli occhi, guardo sempre fuori dall’oblò della cabina. Osservo l’orizzonte, sperando che sia cambiato. E cambia, ogni volta. Sono le nuvole a trasformarlo, creando paesaggi nuovi che durano il tempo di uno sguardo. A volte sembrano dolci colline, con linee morbide e armoniose, altre volte disegnano montagne alte, imponenti, capaci di incutere rispetto. Sono visioni ingannevoli di terraferma, che tardano a diventare reali. Ma forse è meglio così.
Mi vesto e indosso il costume da bagno. Oggi, in teoria, è il giorno del mio “battesimo salato”. È tradizione: a metà del viaggio, chi attraversa per la prima volta l’oceano deve onorare il mare. Ma il mare oggi sembra nervoso. Le onde si fanno più alte, più insistenti. Da quando siamo salpati da Tenerife, abbiamo incontrato pochi compagni di viaggio. Una cosa che, devo ammettere, mi sorprende e mi dispiace. Durante queste lunghe giornate, un po’ di compagnia, è sempre gradita. Una tartaruga, un banco di delfini – avvistati una sola volta, tra Tenerife e Capo Verde – e poi il nulla. Come se fossimo da soli sopra e sotto il mare.
Sono le 12, ed è quasi ora di pranzo. Come di consueto, vado a controllare la canna da pesca a poppa. Aspetto ancora il mio avversario per una rivincita che tarda ad arrivare. Do due giri al mulinello, giusto per verificare che nessun pesce abbia abboccato alla nostra lenza. E poi lo vedo.
Nelle onde, davanti a me, si muove un’ombra nera. Grande, massiccia, che avanza veloce. Velocissima. A tre metri dalla poppa della barca, l’ombra si fa più nitida. Distinguo una sagoma inconfondibile: lunga, affilata, potente. Ogni movimento è forza e eleganza.
Poi, un taglio nell’onda. La superficie si spezza e sbuca dall’acqua una pinna nera, affilata, che incide il mare come una lama. È uno squalo. Splendido. Maestoso.
Per un istante, il suo corpo si rivela, la coda si intravede in un guizzo, e poi sparisce sotto gli scafi della nostra barca.
Le altre puntate:
- Giorno 1 – La traversata atlantica, un viaggio dentro se stessi
- Giorno 2 – La notte di guardia, nelle mani del vento
- Giorno 3 – Quando la tempesta ti viene incontro
- Giorno 4 – Qualcosa di grave sta accadendo: l’elettronica della nave è fuori uso
- Giorno 5 – Nel mezzo del nulla senza via di fuga. Da se stessi
Urlo, chiamo i miei compagni. Corrono tutti, ma è troppo tardi. Il nostro visitatore è già scomparso. C’è chi mi guarda con scetticismo, chi mi prende per matto. Nessuno ha visto nulla, e non ho avuto il riflesso né il tempo per immortalare l’incontro. Ma io lo so. Lo squalo era lì, a pochi metri da me. Fred mi racconta che anche l’anno scorso, durante la traversata atlantica, avevano avvistato uno squalo.
“Vengono a cacciare sotto gli scafi delle barche” mi dice. “Cercano i pesci più piccoli che sono attratti dalla nostra ombra e cercano riparo”. Ascolto le parole di Fred e guardo ancora il mare, che ora mi sembra diverso. Mi rendo conto che sotto di noi c’è un mondo vivo, silenzioso, crudele e bellissimo. Spero che Nettuno mi perdoni se questa volta la tradizione non è stata rispettata. Io, il bagno oggi, non lo faccio.
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