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Giro d’Italia, ricettacolo di ossessioni: dopo il Covid pure il clima

Causa meteo trasformata la 13esima tappa che diventa di soli 75km. Ma non tutti concordano: “Si poteva fare”

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Il sempre più caotico Giro d’Italia di quest’anno sembra diventato il ricettacolo delle principali ossessioni dei nostri tempi oscuri. Prima quella legata al Covid-19, con la fuga in massa dei ciclisti semplicemente positivi al tampone, mentre nella 13° tappa, trasformata in una tappetta di circa 75 km, l’ossessione catastrofico-climatista ha fatto la sua singolare irruzione.

Ridotta la tappa del Giro d’Italia

In estrema sintesi, da quanto riportato in diretta televisiva dagli inviati Rai, la giuria della popolare Corsa Rosa, su forte sollecitazione dell’associazione dei corridori – quest’ultimi in grande maggioranza favorevoli ad un ancor più drastico accorciamento della frazione di gara – , ha neutralizzato buona parte di una tappa molto attesa dagli scalatori, riducendola ad una distanza per competizioni giovanili o cicloturistiche.

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Tutto questo è avvenuto sulla base dei sofisticati sistemi di previsione in possesso delle singole squadre, i cui responsabili, così come avvenuto nei riguardi dei citati positivi al tampone, hanno pienamente condiviso la linea della massima precauzione. Peccato però, così come gli imbufaliti appassionati hanno potuto constatare, che durante la corsa non si è verificato alcun cataclisma meteorologico, a parte una breve pioggerella caduta sulla carovana del Giro solo nei primissimi chilometri.

“Si poteva correre”

Ma non tutti i corridori hanno condiviso questa scelta, che persino per gli ortodossi telecronisti Rai hanno considerato dissennata. In particolare, il forte passista trentino Gianni Moscon ha usato parole durissime: “Si era già cominciato ieri sera a parlare del maltempo, di possibili cambiamenti, di una tappa diversa da quello che era previsto. È vero che c’è il maltempo, è vero che siamo stanchi ma non credo ci fossero le condizioni per accorciare la tappa. Per me si poteva correre, poi se qualcuno voleva fermarsi poteva farlo. Non ce l’ha ordinato il dottore di fare i ciclisti professionisti”.

I precedenti al Giro d’Italia

Eppure nel recente passato proprio al Giro d’Italia, in cui a maggio sulle Alpi c’è sempre il rischio di vivere giornate da tregenda. Giornate terribili come quella vissuta dai corridori nell’edizione del 1988, durante la quattordicesima tappa, in cui era prevista, tra gli altri passi da superare, anche il mitico Gavia. Si registrarono distacchi enormi, in cui molti ciclisti giunsero al traguardo mezzi assiderati. Altri ancora furono costretti al ritiro. Nel 1968, il grande Eddy Merckx, detto il cannibale, vinse una tappa memorabile alle Tre Cime di Lavaredo, sotto una fitta nevicata con una temperatura glaciale. Idem con patate durante l’epico Giro del 1956, in cui uno stoico Fiorenzo Magni si piazzò secondo correndo con la clavicola e l’omero fratturati. Vinse il celebre lussembughese Charly Gaul, il quale staccò tutti nella ventesima tappa, affrontando un clima polare e arrivando al traguardo semicongelato.

Ossessione sicurezza

Bei tempi andati, dovremmo dire, nei quali il rischio e le fatalità facevano parte del dna culturale della nostra società e per questo considerati elementi con cui convivere. Rischio e fatalità che, come dimostra l’ultima ossessione di massa in auge, quella climatista, sono oramai oggetto di una sorta di colossale esorcismo di massa, quest’ultimo gestito da una schiera di sommi sacerdoti scientificamente certificati. Sacerdoti del bene comune che ci indicano la strada maestra per evitare virus e catastrofi climatiche e vivere per sempre felici e contenti: mascherine, auto elettriche e tappe del Giro più corte in caso di previsioni metereologiche avverse. È proprio un bel mondo, non c’è che dire.

Claudio Romiti, 20 maggio 2023