La corsa al voto

Giuseppe Conte, il pollo in batteria che ci ha imposto il lockdown

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Il delitto più grosso di Giuseppe Conte consiste nell’avere funzionato come viatico per il supertecnico sciagurato: poi tutti gli altri. Ma che aspettarsi da un pollo in batteria escogitato da un comico in disarmo, uscito dall’incubatrice di una società di profilazione dati? Purtroppo, se la fortuna aiuta gli audaci, la disgrazia segue i coglioni: l’Italia nel suo momento più critico si è ritrovata in mano a questo acconto di premier, con una leadership metrosexual spartita fra il Rasputin del Grande Fratello, Casalino, e il Richelieu del Fatto, Travaglio.

I risultati sono stati irripetibili, almeno speriamo; da consegnare a futura memoria e anche a damnatio memoriae: lo sbando di fronte al Covid, i lockdown dilatati, dalla Lombardia all’Italia, da due settimane a sine die, Speranza e Ricciardi, Arcuri e i virologi utilité, tachipirina, vigile attesa e convogli di bare, autopsie negate, e poi si sarebbe capito perché, un disastro dietro l’altro, uno scandalo dietro l’altro. Pagina nerissima, pazzesca, lugubre, inenarrabile. Fino all’implosione della setta, all’anatema di Grillo, “Conte? Un buono a nulla”, alle schegge impazzite, alla rappresentanza di poco meno di niente.

Lontani i tempi dei selfie con i gazzettieri dalla lingua lunga, per farsi leccare meglio, il libro su Salvini in mano, per percurarlo: ma era stato suo alleato fino a un minuto prima. Il leguleio di Volturara Appula, scagliato in un gioco più grande di lui, e ci voleva poco, è finito come tutti i provinciali presuntuosi: straconvinto di essere all’altezza, un eroe insostituibile, con tanto di manie di persecuzione. In realtà, Peppiniello è uno per tutte le 4 stagioni: di setta e di governo, di destra e di sinistra, alleato con Salvini, ai materassi con Salvini, legato a Letta, a sputacchi con Letta, una trottola del potere, ogni giro una gaffe: ricordate i giornalisti “che guadagnano solo 300 euro l’ora” (forse lui ne conosce qualcuno)? O la candidata Layla Pavone equivocata per Layla Romano, una pornostar? O gli imbarazzi sulla vicenda Retelit – Fiber 4.0, di cui era consulente ma a sua insaputa? O la società con il superavvocato Guido Alpa, suo mentore universitario? “Mai avuto nessuna società insieme”, e fuori dallo studio c’era la targa col suo nome.

Peccati veniali, si dirà. Col metro italiano, certamente. Ma il Giuseppi, come lo ricorda Trump, non è per questi che resterà nel nostro scontento, se mai per l’arroganza che si univa all’insostenibile leggerezza, alla vanità leccata, alla maleducazione delle conferenze stampa formato reality, ore di ritardo e risposte strafottenti alle rarissime domande, all’esaltazione dell’atroce Arcuri, allo sbraco dei galantuomini incaricati della sagace strategia antipandemica che si presentavano con mascherine appese alle orecchie e irridevano chi le portava, salvo passare a rendere la vita impossibile a chi non le portava. L’opportunismo di una banderuola al vento. Le minacce subito rimangiate, perché l’uomo ha le palle che ha.

Lo rimembrate, una volta caduto da cavallo, col banchetto da fruttarolo in piazza, alla disperata ricerca di consensi evaporati? Molto spesso, troppo spesso il narcisetto è sembrato fallare nella dignità: oggi è un istrione triste, aggrappato all’unica trovata extrapandemica, anche quella purtroppo disastrosa: il reddito di cittadinanza, appannaggio di parassiti, mafiosi, pregiudicati assortiti. I delfini l’hanno spolpato, da Di Maio a Di Battista, e Grillo non l’ha difeso. Aveva giurato e spergiurato che sarebbe tornato al suo mestiere, cioè il barone piacione, ma si sa che a quelli che salgono dalla provincia più incistata non è facile rinunciare ai piaceri e ai poteri romani. Più che ruggire, squittisce, ma a qualunque costo vuol restare nel business. Come se lo sfacelo pandemico, il disastro dell’Ilva, il tracollo di Roma, lo sfascio economico non li avesse attraversati, tutti, senza risolvere niente. Caschi gialli, banalità da prima serata, c’era quel meme, devastante, di Osho, lui in una scuola che chiedeva ai bambini soluzioni per qualunque cosa, qualsiasi cosa, un’idea almeno.

Poi gliele ha date Travaglio, le idee: ma erano, come sempre, demenziali. Chi rappresenta oggi Conte se non un uomo solo consegnato a un passato di fallimenti? Cosa incarna se non la grottesca disperazione di chi non vuole tornare “a fare zìzì con le aragoste”, come Lino Banfi al Bar dello Sport? E non è colpa del ritrattista se su quest’uomo, sempre più svirilizzato, politicamente ridicolo dopo esser stato tragico, non c’è altro da dire: non ha storia, non ha origine, non ha sostanza, non ha un futuro; il suo nome resterà per sempre legato al momento più lugubre della nostra storia repubblicana, e questa è già una Nemesi sufficiente per castigarlo (non per perdonarlo: questo mai). Anche se in centosettantamila famiglie che hanno perso un parente a causa delle abiette strategie di Speranza, potrebbe non bastare. Ma che vuoi dire di uno che oggi tuona contro la decretazione d’urgenza, sulla quale si è retto, abusandone, per tutto il tempo del suo incredibile incarico a palazzo Chigi? Di uno che dopo aver fatto strage della Costituzione si propone come suo difensore? Draghi, a proposito, sarebbe riuscito a fare perfino peggio: ma questa è un’altra storia, don Peppinié, vulite ‘a spremuta o vulite ‘o cafè?

Max Del Papa, 6 settembre 2022

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