A tutte queste vittime della Giustizia la riforma Bonafede, emendata dal ministro Cartabia, non rende onore. E soprattutto non ne impedisce la moltiplicazione. Perché “la riforma conserva l’impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede”. Ancora parole di Marta Cartabia, primo ministro della giustizia a poter vantare nel proprio curriculum la presidenza della Corte Costituzionale. Una condizione che la pone, a pieno titolo, nel Governo dei Migliori. Ma proprio per questa condizione ci eravamo aspettati che potesse scrivere una legge di riforma della giustizia senza preoccuparsi dell’ego ferito di Alfonso Bonafede o dei problemi di tenuta politica del M5s. I cittadini vengono prima di loro. Avevamo sperato, in molti, che il Governo dei Migliori potesse redigere un testo “giusto”, secondo le autorevoli indicazioni di quella commissione Lattanzi (altro presidente emerito della Corte Costituzionale) che invece sono state accantonate, per inseguire un compromesso politico. Avremmo preferito un testo del Governo secondo le indicazioni dei migliori, lasciando al Parlamento, sovrano come sempre, l’onere di trovare il punto di mediazione politica possibile.
E poi forse ci siamo dimenticati della separazione delle carriere, della riforma del Csm, e di tutte le questioni che puntualmente elencava la relazione della Commissione Lattanzi. Nulla di fatto. Il metodo Draghi che abbiamo apprezzato in questi mesi è stato quello dell’ascolto di tutti e della decisione solitaria. Lo abbiamo visto all’opera in molte nomine. Lo abbiamo apprezzato nella stesura del Pnrr. Lo avremmo visto con soddisfazione nella riforma della giustizia. Invece sono prevalse le bandiere sdrucite, di parte e di partito. Con buona pace per le vittime della giustizia di ieri e di quelle che inevitabilmente saranno domani.
La riforma Bonafede, emendata dal ministro Cartabia, soddisferà le richieste della Commissione europea? Forse, il nostro premier è oggi il vero leader Ue. Ma temo che non soddisferà le esigenze degli investitori stranieri che alla palude delle indagini e del processo di primo grado hanno visto aggiungersi un altro barocchismo italico: l’improcedibilità. Un limbo tra assoluzione e condanna, che non scioglie il giudizio, lo congela per l’eternità. Con effetti di incertezza perenne, soprattutto per le parti civili (e quindi per gli interessi economici che restano pendenti e irrisolti).
Antonio Mastrapasqua, 12 luglio 2021