Gli errori di Bergoglio sulla proprietà privata

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Non è ormai un mistero l’avversione di Papa Bergoglio nei confronti della proprietà privata e del mercato, e in sostanza del capitalismo e del liberalismo in genere, come del resto ha pure confermato nei giorni scorsi in occasione dell’udienza generale del mercoledì. In tale circostanza, proseguendo le catechesi sui vizi e le virtù e parlando «dell’avarizia, cioè di quella forma di attaccamento al denaro che impedisce all’uomo la generosità», ha paradossalmente riconosciuto che, sebbene l’operato dei ladri «sia censurabile, esso può diventare un ammonimento salutare». A suo dire, «sono i ladri a renderci questo servizio», ossia ad avvertirci della nostra avarizia. Così facendo, da un lato, ha disatteso il VII, “Non rubare”, e il successivo X Comandamento, “Non desiderare la roba d’altri”; dall’altro, ha mostrato di non tenere in alcuna considerazione la proprietà privata, il cui riconoscimento si desume in controluce proprio dai predetti precetti del Decalogo, che proibiscono, in assenza del consenso del titolare del diritto, di prendere o desiderare di prendere ingiustamente i beni altrui e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo.

In precedenza, il medesimo pontefice aveva manifestato identici intendimenti ad esempio nell’Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” del 24 novembre 2013, nella quale aveva mosso critiche al libero mercato e alla crescita economica che esso promuove, e nelle successive encicliche “Laudato Si’” del 24 maggio 2015 e in “Fratelli tutti” del 3 ottobre 2020, ove si è espresso nel senso che «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati». Nel Messaggio ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze sociali del 24 aprile 2017, ha poi riproposto l’attacco alla «visione liberal-individualista del mondo», all’«attività dei mercati e [al] la manipolazione della natura», denunciando addirittura i «gravi rischi connessi all’invasione, nei livelli alti della cultura e nell’istruzione sia universitaria sia scolare, delle posizioni dell’individualismo libertario», mentre in un videomessaggio per l’incontro dei giudici di America e Africa che si occupano di diritti sociali del 30 novembre 2020, si è dichiarato a favore di «un nuova giustizia sociale», riproponendo nuovamente l’avversione nei confronti della proprietà privata. Quindi, nel discorso del 24 settembre 2022 al Assisi, in occasione dell’evento “Economy of Francesco”, e poi nell’ambito della IV edizione dello stesso evento il 6-8 ottobre 2023, ha aggiunto un attacco contro le «università ultra-specializzate in economia liberale» e un’avversione per «insostenibilità spirituale del nostro capitalismo», il quale «vuole aiutare i poveri ma non li stima, non capisce la beatitudine paradossale: “beati i poveri” (cfr Lc 6,20)».

In verità, vi è comunque da evidenziare che nella Chiesa cattolica l’orientamento del Papa citato non può essere affatto considerato isolato, ma sembra piuttosto esprimere continuità con altri pronunciamenti di suoi predecessori, nonostante la qualità argomentativa di Francesco declini a un livello meno raffinato e piuttosto sbrigativo, comunque avulso dalle Scritture. È quanto si desume, in particolare, dall’ Enciclica “Mirari vos” del 1832, sottotitolata: “Sull’indifferentismo e per condannare la libertà di coscienza, di stampa, di pensiero e di culto”, di Gregorio XVI, alla quale ha poi fatto seguito il successivo significativo intervento espresso dall’Enciclica “Quanta cura”, di Pio IX del 1864 e, quindi, una timida apertura verso la proprietà accanto a un atteggiamento diffidente verso il mercato e la libertà economica con dall’Enciclica “Rerum novarum” promulgata da papa Leone XIII il 15 maggio 1891. Nella medesima direzione si è altresì mosso Pio XI con la “Quadragesimo anno” del 1931, nella quale, oltre alla condanna del totalitarismo comunista e del capitalismo, ha definito “naturale” la proprietà privata, ma «orientata al bene comune» e necessariamente moderata dallo Stato, e il Concilio Vaticano II, con la costituzione “Gaudium et spes”.

Di identico avviso Giovanni XXIII nell’enciclica del 1963 “Pacem in Terris” e, soprattutto, Paolo VI il quale, nella “Populorum Progressio” del 1967 ha affermato: «La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario». Per il suo successore, Papa Giovanni Paolo I, poi: «La proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile e assoluto», mentre  Giovanni Paolo II, con la “Centesimus annus” del 1991, che è di poco successiva all’altra enciclica, “Sollecitudo rei socialis” del 1987, ha ribadito che «la proprietà privata non è un valore assoluto» pur sostenendo che: «una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo (…)». Benedetto XVI, infine, nel messaggio per la Quaresima 2008, si è a sua volta pronunciato asserendo che: «Secondo l’insegnamento evangelico, non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo».

Tutti detti intendimenti e, in particolare, quelli dell’attuale pontefice, traboccano in realtà di considerazioni ancorate piuttosto a mere credenze premoderne, sovente prive di riscontri obiettivi e di scientificità, e di idee errate sulla proprietà privata. Essa «è inestricabilmente connessa alla civiltà», come ha scritto Ludwig von Mises, il quale ha pure evidenziato che: «Soltanto le nazioni che hanno fatto proprio il principio della proprietà privata si sono sollevate dalla penuria e hanno prodotto scienza, arte e letteratura». In tal modo, e condivisibilmente, il grande economista e scienziato sociale austriaco ha voluto rimarcare il ruolo centrale che l’istituto svolge per lo sviluppo sociale e il progresso economico e, in definitiva, per la civiltà, atteso che: «spinge gli uomini più intraprendenti di una nazione a impegnarsi al meglio delle proprie capacità e al servizio degli altri».

Sin dal suo apparire, la proprietà privata ha svolto la funzione di delimitare i confini fra ciò che appartiene a ciascuno individuo e si è posta come condizione necessaria della libertà individuale di scelta. Ha inoltre espletato la funzione di limitare il potere politico e la burocrazia, assurgendo al ruolo di contrappeso alla potenza altrimenti inarrestabile dello Stato. Da ciò deriva che, in una società che abbia abolito o compresso la proprietà, si pregiudica la capacità realizzativa dell’individuo, si rende impossibile la cooperazione sociale volontaria, che è uno scambio a somma positiva, avvantaggia cioè tutti i partecipanti, e si finisce in definitiva per arrestare il benessere, lo sviluppo e la crescita economica: «Gli attacchi alla proprietà scoraggiano le persone ad acquisirne e guadagnarne di nuove, poiché queste si convincono di essere destinate ad essere private di tali beni», ha rilevato lo studioso arabo Ibn Khaldun (1332-1406), secondo cui:  Quando non c’è più nessun incentivo a guadagnare e ad acquisire ricchezze, la gente smette di sforzarsi per ottenerle. Il grado di violazione dei diritti di proprietà determina un calo degli sforzi per acquisirne di nuove. Quando tali violazioni sono sistematiche, si verifica una conseguente interruzione delle attività che generano profitto».

Sandro Scoppa, 5 febbraio 2024

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