“Survivor” tra i ministri del governo Meloni: è il nuovo reality show in onda nei meandri del potere romano, tra Quirinale e Consiglio di Stato, su chi si salverà e chi verrà eliminato. Dietro le quinte i giudizi sono unanimi su un esecutivo che ha una maggioranza granitica e un premier carismatico che cavalca autorevolmente la scena internazionale. Fioccano invece commenti meno lusinghieri su quella pletora di ministri del tutto inadeguati al disegno riformatore della Meloni, con tanto di gabinetti che non si parlano nemmeno tra loro. Da qui l’esigenza, avvertita da tutti, nonostante le reiterate formali smentite, di un rimpasto.
Sui tempi, le ipotesi variano: c’è chi dice dopo le possibili iniziative giudiziarie, chi con le prossime elezioni europee e, infine, chi con la scelta del commissario Ue (Giorgetti?). A parte il triumvirato moderato (Tajani, Crosetto, Piantedosi), diversi sono i ministri in nomination, al centro di chiacchiere di ogni tipo. In primis, come responsabile del corto circuito tra Governo e Parlamento viene additato il ministro Luca Ciriani. Friulano, fratello del sindaco di Pordenone, all’attuale ministro dei rapporti con il Parlamento non basta più il rapporto diretto con la Meloni, che l’ha voluto, incautamente, in quel delicatissimo ruolo. Gentile e riservato, ormai vive l’aula di Montecitorio con terrore e, così, si rifugia spesso in Senato, da dove proviene, complice un capo gabinetto non proprio all’altezza, Massimiliano Lucà. Il suo ufficio non riesce a star dietro neppure agli ordini del giorno, facendosi sfuggire nei testi critiche al Governo da parte della sua stessa maggioranza.
A Palazzo Madama poi, in questi giorni, nonostante la mancanza della solita pioggia di emendamenti, Ciriani è riuscito nell’impresa impossibile, al contrario dei buoni propositi di inizio mandato meloniano, di dilatare i tempi di approvazione della Legge di bilancio che si concluderanno, come sempre, a ridosso di Capodanno, creando una frattura con il presidente leghista della Camera Lorenzo Fontana. Tuttavia, nei colloqui riservati che corrono senza sosta, per il comando della disarticolata brigata governativa, se la battono Adolfo Urso ed altri “invisibili”, come Paolo Zangrillo e Alessandra Locatelli, per non parlare dell’ologramma Gilberto Pichetto Fratin, un grigio senatore della commissione bilancio che sta alla transizione energetica come l’analogico all’intelligenza artificiale.
Viene ricordato solo come oscuro collettore di emendamenti dei colleghi durante le sessioni mattutine e notturne delle Leggi finanziarie che ha seguito negli anni, quando viveva in un angusto monolocale dietro palazzo Giustiniani, lasciato una volta diventato ministro. Da quando è al governo si ricordano invece solo le sue lacrime di commozione dinanzi alla recita della giovane “eco-ansiosa”, avallando le sue paure e irrazionalità anziché rassicurarla. Di Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, si dice che è campione del mondo per tasso di interviste, quasi una al giorno, sbandierando successi patacca come il calo dell’inflazione e il cartello tricolore, talmente fallimentare da non essere stato nemmeno rinnovato.
Affabile, elegante come un nobile siciliano, finora è riuscito a portare sgomento in tutti i settori in cui si è mosso: dal disastro Tim – dove è stato commissariato addirittura dal capo di gabinetto di palazzo Chigi, Gaetano Caputi, uno “yankee doc” – alla vicenda ITA, fino al caos bollette. Per non parlare dell’acciaio dove, ad un certo punto, pare su sollecitazione della fascinosa moglie ucraina, Olga Sokhnenko, sempre a detta dei beninformati, sua grande consigliera assieme al figlio Pietro avuto dal precedente matrimonio, voleva piazzare come amministratore delegato di Acciaierie d’Italia un dirigente di ArcelorMittal-Ucraina, tale Mauro Longobardo. Il risultato è che ormai tutto il mondo industriale ha lasciato al suo inevitabile destino il loquace Urso per cercare accoglienza nelle generose braccia di Raffaele Fitto, gran cerimoniere del Pnrr.
Di Paolo Zangrillo si sussurra invece che il vero ministro della funzione pubblica sia il suo preparatissimo capo dipartimento, Marcello Fiori, in rotta di collisione, come spesso accade, con il capo di gabinetto Pio Marrone. Ultimamente, negli staff meeting il ministro ripete – non si sa se più per intima convinzione o per scaramanzia – che la sua esperienza governativa finirà a breve. Fratello dello storico medico di Silvio Berlusconi, etichetta che non riesce a scrollarsi di dosso, non si espone su nessun tema per timore di sbagliare o di essere giudicato male all’interno del partito, da cui spera di essere ricandidato. Per questo ha un occhio di riguardo per il Piemonte, da cui proviene, ma dove pure evita di prendere posizione. Ha forzato la mano, sconvolgendo tutti, solo per imporre un suo fedelissimo alla struttura di missione del Pnrr, Paolo Vicchiarello, già amico e pupillo della ministra grillina Fabiana Dadone che, a sua volta, lo insediò alla struttura di missione della presidenza del Consiglio che si occupa di promuovere gli anniversari.
Quando nel 2021 dovette preparare la locandina che celebrava il centenario del Milite ignoto, Vicchiarello pensò bene di mettere la foto di soldati americani. Per i maligni Zangrillo che nasce ronzulliano, ma è diventato velocemente tajaneo, soffre maledettamente il confronto con il ministro che lo ha preceduto alla Funzione Pubblica, Renato Brunetta, il suo esatto contrario, vulcanico, pieno di idee e sempre pronto ad assumersi le proprie responsabilità. A chiudere il quadro, la più carneade di tutti, la leghista Alessandra Locatelli, una pia donna, ma priva del minimo stile, che ha messo il silenziatore a quello che doveva essere un fiore all’occhiello del Governo, il ministero per le disabilità.
Solo pochi giorni fa, dopo un anno di pallide e inutili comparsate, è riuscita a nominare Serafino Corti come coordinatore tecnico-scientifico e i coordinatori dei cinque gruppi di lavoro dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone che avrà il compito di scrivere il nuovo Piano nazionale per le Disabilità che sarà firmato dal Presidente della Repubblica entro il 2024. Chissà se ci sarà ancora lei a promulgarlo. Coraggio, Giorgia: meglio un rimpasto oggi che una crisi di governo domani.
Luigi Bisignani per Il Tempo 10 dicembre 2023