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Grecia, ecco la nuova bomba migratoria

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È solo l’inizio. La guerra di immigrati innescata dal sultano turco, Erdoğan, vede nel caos di queste ore solo la confusione della griglia di partenza, il peggio deve ancora arrivare. Per adesso a combattere c’è soltanto la Grecia: esautorata su ogni fronte. Superato il filo spinato e prima delle fortificazioni elleniche, oltre cinquecento disperati sono bloccati da cinque giorni. Dietro le barriere turche sono in quattromila a premere. Per l’organizzazione internazione degli immigrati sarebbero pronti altri diecimila pronti ad ingrossare le fila.

L’assedio alla “fortezza diroccata Europa” adesso è tutto al confine tra Grecia e Turchia. Secondo le stime ufficiali nei campi profughi turchi vivono più di tre milioni di rifugiati siriani e a breve potrebbero unirsi all’assedio. Ma prima di capire cosa stia succedendo in Grecia, va fatta una premessa che è scomparsa dai media principali: è indispensabile, infatti, chiarire la promessa delle scorse ore di Erdoğan, pronto a tradire il patto con l’Europa – smetterà di tenere la frontiera chiusa agli immigrati in cambio del denaro di Bruxelles –  con quelle che Kelly Greenhill anni fa ha definito “armi di immigrazione di massa”. Sfugge sempre ai commentatori, infatti, chiarire che i milioni di sfollati sono in fuga da Idlib, la provincia della Siria dove l’esercito turco difende i tagliagole terroristi di Al Qaida e i ribelli jihadisti minacciati dalla truppe sostenute da Putin. Fatta la non irrilevante premessa, cosa sta accadendo in Grecia?

Le autorità locali e i residenti, con la forza, stanno dicendo che dopo cinque anni in prima linea nella crisi migratoria che ha colpito l’Europa, non sono più disposti ad accettare migliaia di richiedenti asilo nelle loro isole. E la Grecia è già passata, nella narrazione giornalistica, da vittima a carnefice. Le proteste degli abitanti delle isole greche di Chio e Lesbo contro la creazione di nuovi centri per ospitare emigranti illegali, il 24 febbraio, sono degenerate in scontri violenti tra dimostranti e polizia. Per rimediare al sovraffollamento nelle strutture di accoglienza in alcune isole, il governo ha deciso nei mesi scorsi di costruire dei nuovi centri, a Chio, Lesbo, Samo, Kos e Leros – tutte isole vicine alla Turchia. Centri temporanei di detenzione, chiusi e destinati a emigranti che non ottengono lo status di rifugiato e vengono quindi espulsi. I cosiddetti “campi chiusi” controllano strettamente l’accesso e nascono allo scopo di controllare ogni movimento (di notte vengono chiusi) e impedire agli immigrati di fuggire sulla terraferma.

La popolazione teme che siano, o possano trasformarsi, in centri di accoglienza permanente e pertanto ne sta combattendo la costruzione. Il clima è talmente insostenibile che la guerriglia è scoppiata immediatamente. I greci hanno paura, sono arrabbiati e stanchi. Il 25 febbraio, oltre 500 persone del posto hanno impedito agli operai l’accesso al cantiere del nuovo campo proposto a Lesbo. Scontri simili si sono verificati a Chios, la grande isola greca, a meno 20 chilometri dalla Turchia, da dove decine di migliaia di migranti partono ogni anno nella speranza di raggiungere l’Europa continentale.

Il nuovo sito di Lesbo dovrebbe sostituire l’attuale campo a Moria. Una struttura tentacolare, costruita per non più di 3.000 immigrati, ma che ne ospita almeno 20.000, di cui circa un terzo di età inferiore ai 18 anni. I residenti locali lamentano, poi, che gli immigrati sono responsabili di un picco di criminalità. “Hanno visto le loro proprietà distrutte, le pecore e le capre sono state massacrate, le case distrutte”, ha commentato Nikos Trakellis, leader della comunità a Moria.

Il governatore regionale Kostas Moutzouris, che si oppone al piano del governo di costruire campi permanenti di migranti sulle isole, ha descritto la situazione a Lesbo come una “polveriera pronta ad esplodere. È fondamentale che venga dichiarato uno stato di emergenza. Temo per la sicurezza della nostra gente, i residenti di Lesbo. Perché la situazione cambi, molti rifugiati devono essere trasferiti sulla terraferma e i nuovi arrivati dalla Turchia devono essere fermati. Altrimenti, siamo condannati”.

Il portavoce del governo Stelios Petsas, che ha descritto le strutture esistenti come “bombe di sanità pubblica”, ha dichiarato: “Chiediamo alle comunità locali di capire che queste strutture chiuse andranno a beneficio del Paese e delle loro comunità. In questo momento c’è un deficit di fiducia, crollata negli ultimi anni, ma deve essere ripristinata. Costruiremo questi centri chiusi ma chiuderemo quelli esistenti”. La promessa del governo è quella, infatti, di restituire alla Turchia quanti non risultano idonei allo status di rifugiati.

Negli ultimi mesi il governo di centrodestra ce la sta mettendo tutta per cambiare radicalmente l’approccio dell’esecutivo Tsipras. Da subito ha revocato l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica per richiedenti asilo e immigrati privi di documenti; ha cambiato i criteri per le domande di status di asilo e ha proposto di far rientrare i diecimila immigrati illegali entro la fine del 2020; a gennaio ha annunciato la possibilità di erigere delle barriere galleggianti per impedire agli immigrati di arrivare via mare; a febbraio il parlamento greco ha approvato una legge che regola tutte le ONG che si occupano di questioni migratorie: l’obiettivo è garantire che le ONG non traggano profitto dalla migrazione di massa “in modo parassitario”.

Nel 2019, circa 60.000 immigrati – una media di 164 al giorno – hanno raggiunto la Grecia, secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Quasi l’80% è arrivato a Chio, Lesbo e Samo. Una tendenza che è continuata nelle prime sei settimane del 2020: oltre 6.000 immigrati – una media di 133 al giorno – hanno raggiunto le coste greche e i principali paesi di origine individuati sono Afghanistan (50%); Siria (21%); Congo (6%) e Iraq (3,5%).

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