di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Giovedì sera il Consiglio dei ministri ha emanato un nuovo decreto-legge, l’ennesimo, che estende l’obbligo di munirsi del green pass a tutti i lavoratori del settore pubblico e di quello privato. Un obbligo vaccinale mascherato senza che lo Stato si assuma la responsabilità di pagare il risarcimento dei danni in caso di morte o effetti avversi derivanti dal vaccino.
Green pass come sistema di controllo totale
Il decreto-legge prevede che dal 15 ottobre fino al termine dello stato di emergenza, attualmente fissato al 31 dicembre 2021, i datori di lavoro debbano verificare che il dipendente – pubblico o privato – sia in possesso del green pass. I datori di lavori diventano insomma poliziotti che controllano lo stato di salute dei lavoratori. Si noti, dal 15 ottobre, la decretazione d’urgenza si prende quasi un mese per diventare urgente, perché in effetti non c’è alcuna urgenza sanitaria, ma solo la necessità di un controllo totale sulla popolazione.
Non si tratta di un obbligo vaccinale in senso tecnico in quanto il green pass è rilasciato non solo a chi è vaccinato ma anche a chi è guarito e a chi effettua un tampone valido per 48 ore. Nella sostanza invece siamo di fronte ad un obbligo vaccinale perché chi non volesse sottoporsi a vaccinazione sarà costretto a proprie spese a farsi tamponi ogni due giorni. Pena la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione e, in caso di inosservanza delle norme, multa da 400 a 1.000 euro. Il lavoratore sospeso non potrà tuttavia essere licenziato. L’obbligo del green pass è esteso anche allo svolgimento dell’attività giudiziaria, con ingresso di magistrati e avvocati negli uffici giudiziari subordinato al possesso del lasciapassare sanitario. Di conseguenza un qualsiasi cittadino sottoposto a procedimento penale, per cui la difesa è un diritto inviolabile (art. 24 della Costituzione), potrebbe trovarsi sprovvisto del proprio difensore di fiducia se questo non intendesse munirsi di green pass per recarsi in aula.
Diritti costituzionali a rischio
Ma il discorso è più complesso. Il governo ha subordinato il diritto costituzionale del lavoro a quello di possedere un lasciapassare sanitario. Un punto che merita di essere affrontato sotto l’aspetto costituzionale. La Repubblica, ai sensi del primo comma dell’art. 1 della Costituzione, “è fondata sul lavoro”, ma non solo. L’art. 4 della Carta stabilisce che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il lavoro come diritto finalizzato al progresso materiale e spirituale della società. Due articoli, l’1 e il 4, rubricati nei principi fondamentali della Carta. Di contro, il diritto alla salute è disciplinato all’art. 32 e rubricato nei Rapporti etico-sociali.
Il governo ha in pratica invertito questa priorità di valori costituzionali subordinando il diritto su cui si fonda la Repubblica, il lavoro, alla salute, dimenticando anche che l’art. 35 della Costituzione “tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, mentre l’art. 36 garantisce al lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Come si concilia la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione prevista dal decreto-legge per il lavoratore sfornito di green pass con gli artt. 1, 4, 35 e 36 della Costituzione? Tutto è giustificato in nome dell’emergenza sanitaria (che non c’è, perché l’emergenza è sotto controllo) e non è stato neppure effettuato un bilanciamento tra diritti fondamentali.