Ci sono tutti gli elementi di un melodramma all’italiana nella vicenda che ha coinvolto in queste ore Beppe Grillo, indagato dalla procura di Milano per i contratti pubblicitari firmati dal suo blog con la compagnia marittima Moby dell’armatore napoletano Vincenzo Onorato. Proviamo ad elencarli.
1. La nemesi storica per cui il capo del partito più giustizialista, quello che voleva svuotare il parlamento come una scatoletta di tonno al grido di “onestà, onestà”, si trova indagato per un reato molto sui generis come un qualsiasi parlamentare o capo politico della vecchia Casta.
2. Che l’indagato sia da considerarsi innocente fino a che il reato non sia stato provato, è un principio di normale civiltà giuridica che però proprio i grillini hanno più e più volte infranto. Ma che oggi la presunzione di innocenza venga invece reclamata per la prima volta se stessi è semplicemente ipocrisia e malafede.
3. Che poi il reato in sé, il “traffico di influenze”, sia un obbrobrio giuridico che si trova solo nell’ordinamento italiano, introdotto fra l’altro nel 2002 sull’ondata giustizialista che faceva capo proprio ai grillini, mostra come questi ultimi si siano creati una trappola con le loro stesse mani. Ancora una volta: malafede, ipocrisia e, aggiungerei pure, stupidità.
4. Il fatto poi che i giornali d’area (a cominciare dal Fatto di Marco Travaglio) e gli stessi esponenti del Movimento Cinque Stelle quasi nascondano la notizia, e comunque non diano ad essa lo spazio che in altre occasioni hanno dato a indagini simili coinvolgenti esponenti di altri partiti, sembra quasi una parodia de La fattoria degli animali di George Orwell: tutti gli animali sono uguali, o se preferite “uno vale uno”, ma qualcuno è più uguale degli altri.