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Guido Crainz e il vizietto dell’intellettuale organico

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Da Jan Palach alle foibe carsiche, Guido Crainz si è assunto il compito di riscattare la cultura di sinistra in Italia (post-comunista, post-azionista, post-dossettiana etc etc.) dall’accusa di insensibilità dinanzi alle tragedie storiche causate da uomini e ideologie  che fanno parte dell’album di famiglia.

Nell’articolo pubblicato da Repubblica domenica 10 febbraio, Mattarella e il dramma delle foibe, lo storico scrive, in linea con il discorso  fatto dal Presidente della Repubblica nel giorno della memoria: «Quelle migliaia di uccisioni, quel clima di terrore che segnò l’autunno del 1943 in Istria e il maggio-giugno del 1945 nell’intera zona occupata da Tito – e che portò all’esodo della quali totalità della popolazione italiana – non sono riducibili a ‘una ritorsione contro i torti del fascismo’, per citare ancora Mattarella». Averlo riconosciuto in un paese in cui la Sezione di Rovigo dell’Anpi in un suo comunicato negazionista scrive che quegli eccidi sono un ‘invenzione dei fascisti’, non è poco. Si sarebbe voluto, però, che, oltre al nazionalcomunismo di Tito, venissero ricordati anche i partigiani comunisti italiani che collaborarono al massacro nonché i portuali genovesi – la Superba è sempre stata il semenzaio del peggiore fanatismo estremista – che volevano impedire ai reduci istriani di sbarcare in Italia in quanto nazifascisti.

Comunque non è tanto su questa dimenticanza (se si scrive su ‘Repubblica’ ci si autocensura) quanto su un vecchio e deprecabile ‘costume di casa’ che porta i nostri intellettuali impegnati all’uso strumentale della ‘storicizzazione’. Quando si tratta delle malefatte dei neri, il giudizio etico prevale su ogni altra considerazione: un giudizio terribile, inappellabile, che non fa sperare nella remissio peccatorum neppure nell’altro mondo. Quando si tratta, invece, delle malefatte dei rossi ci si richiama al ‘contesto politico’ sicché alla cerimonia commemorativa delle vittime – alle quali si rende onore con anni e anni di ritardo – si accompagna una bella lezione di storia. È come se accanto al sacerdote che officia la messa e ricorda il sacrificio di nostro Signore ci fosse un professore di storia antica a spiegare il ‘contesto’ che portò alla crocifissione, le buone ragioni dei custodi delle leggi giudaiche e il motivo reale per cui Ponzio Pilato fece il gran rifiuto.

Si tratta di un ‘costume di casa’ che è la negazione pura e semplice (una delle tante) dello ‘stile di pensiero’proprio della democrazia liberale e altre volte rievocato su queste pagine. In questo caso, si ignora (si vuole ignorare) che le cerimonie pubbliche appartengono alla dimensione religiosa e hanno una funzione intensamente comunitaria: sono un collante sentimentale e valoriale non la rievocazione di come si sono effettivamente svolti i fatti, per citare Leopold  von Ranke.

«Quel clima – aggiunge Crainz a un discorso condividibile – non è comprensibile appieno però ove non si consideri nel suo insieme la lunga storia di quest’area: dal trauma della prima guerra mondiale sino alla politica anti-slovena e anti-croata perseguita dal fascismo. E sino all’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941, nello scenario di una guerra che fu – a est più ancora che altrove – guerra di sterminio» Ed eccoci, così, tornati al vizietto dell’intellettuale organico – una figura da noi sempre verde: Crainz plaude al Presidente Mattarella (l’officiante del rito delle foibe) ma non dimentica di affiancargli il professore di storia contemporanea che dice agli Italiani: ora asciugatevi le lacrime perché è venuto il momento di dirvi «perché è successo».

Intendiamoci, se ci si trovasse nel laboratorio  delle scienze storiche e sociali condividerei, sul piano metodologico, quanto scrive Crainz sulla necessità di storicizzare gli eventi, ma che c’azzeccano gli strumenti della ricerca con la giornata della memoria? Non solo. E perché quando si rievocano e si depongono corone di fiori sui luoghi dei delitti compiuti dal fascismo – ad esempio, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia dove venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti – non si parla – e giustamente, ci tengo a sottolinearlo – di ‘contesto’ ovvero delle cause sociali, culturali, economiche, politiche che portarono il Duce al potere e che spiegano ‘gli anni del consenso’, le adesioni di larghissimi strati sociali al regime, le grandi trasformazioni – non tutte negative – che se ne ebbero nel paese?

Lo storicismo è ,e da tempo, nel nostro paese, un po’ come le leggi di cui parlava il buon Giovanni Giolitti: è una misura che si applica agli amici (vincitori) e si nega ai nemici (i vinti). Sinceramente dispero che si ci possa liberare di questo doppiopesismo della mente e che si possa porre a fondamento della ‘società aperta’ l’arte della separazione dei piani, che nasce dal senso profondo della varietà delle dimensioni esistenziali e dei relativi codici. Sennonché quella che sembra l’invasione di campo di una scienza che antropofacizza  la sfera del mito e del sentimento, è, in realtà, ideologia con  maschera di scienza. Si ha, a volte, la penosa impressione che nelle nostre aule universitarie, sulle pagine culturali dei grandi quotidiani, nelle redazioni delle riviste, nei documentari televisivi, il ‘sapere’ serva solo a devitalizzare il dente cariato del ’senso comune’ quando non è in sintonia col pensiero egemone.

Nel caso delle foibe, curiosamente, si accusano ancora oggi le destre di averne parlato in modo strumentale come se ciò non fosse vero per tutte le parti politiche che selezionano, nell’infinita varietà dei fatti storici quelli che «fanno il loro gioco».

Dino Cofrancesco, per la Fondazione Hume