Ci sono due piccole norme nell’ultima manovra finanziaria e che entrano in vigore da oggi, nascoste nelle pieghe dei commi, e che danno il senso di come un governo di sinistra continui ad avere i medesimi pregiudizi economici di sempre. Vediamole. La prima riguarda le partite Iva che godevano della flat tax. E la seconda riguarda quei proprietari di immobili commerciali, negozi e botteghe. Entrambe hanno cancellato il regime di maggior favore introdotto nel 2019. Comporteranno aumenti di imposta a carico di quel ceto medio impoverito, vessato da imposte e burocrazia kafkiana. Sono i nostri invisibili, troppo poveri per avere eco mediatica, troppo ricchi, si fa per dire, per essere considerati davvero poveri.
È come quella generazione perduta del maschio cinquantenne del nord, che ha perso il lavoro. Troppo vecchio per avere gli incentivi dei giovani, troppo giovane per andare in pensione e dotato di un piccolo gruzzolo, forse, da renderlo ceto medio con la sola prospettiva di diventare povero. Sono categorie fuori dai radar. Non hanno vissuto di assistenza, non ci hanno mai puntato e provocano allergia alla sinistra economica che ci governa da anni. Il caso della flat tax è clamoroso. È bastata una piccola modifica per far fuori dal regime del 15 per cento, mezzo milioni di partite Iva. Senza grandi clamori mediatici il governo giallorosso, ha cancellato un beneficiario del regime forfettario ogni quattro. Avete capito bene. Cinquecentomila persone che l’anno scorso pagavano il 15 per cento sulle loro fatture e che da quest’anno dovranno tenere libri contabili, fatturare con l’Iva, compilare modelli e pagare saldi e acconti dell’Irpef con l’aliquota presumibilmente doppia del loro reddito e non con quella agevolata del 15 per cento.
Questi «delinquenti» hanno avuto la colpa di produrre redditi da lavoro dipendente, o pensioni, o erano amministratori e soci di società e cooperative e si portavano a casa un gruzzoletto superiore ai 30 mila euro. Ebbene la flat tax è cambiata. E coloro che nel 2019 (poco importa se quel reddito da lavoro dipendente nel 2020 non ci sarà più) arrotondavano lo stipendio con una collaborazione, da oggi si vedranno raddoppiare la loro tassazione sul lavoro autonomo. Qualche esempio concreto: il maestro in pensione che nel 2019 dava ripetizioni poteva applicare la flat tax; o l’amministratore di una srl che faceva qualche consulenza; o il dipendente privato che faceva qualche lavoretto. Il mondo del lavoro è complesso, stipendi e pensioni non sono da favola, e chi può cerca di fare di più. Mal gliene incolse. Chi ci governa non lo trova giusto.
Se un contribuente ha un reddito dipendente decente (30 mila lordi, non sono neanche duemila euro al mese) non può avere la flat tax sui lavoretti che fai extra impiego. È il solito principio dell’invidia sociale. Invece di rendere, per questa via, meno pesante il costo del lavoro autonomo, si cerca di mettere tutti sullo stesso piano, che è sempre quello dell’aliquota fiscale più alta. È del tutto evidente ciò che avverrà: ci saranno 400 mila (su 500 mila) nuovi possibili evasori di necessità: è il modo migliore per alimentare il nero. Figlio della stessa filosofia è l’intervento che ha visto l’abolizione della cedolare secca del 21 per cento sugli immobili locati ai commercianti. Da una parte si dice di voler fare le mirabolanti web tax contro i campioni del digitale e di voler aiutare i piccoli negozi di prossimità e poi li si bastona per fare cassa. Si impongono scontrini chilometrici che obbligano a cambiare le macchine per stamparli, li si considera fonte di evasione primaria scrivendolo in un documento ufficiale e poi si toglie un incentivo indiretto rappresentato appunto dalla cedolare secca.
Se il proprietario paga poco (anche qui, relativamente) su quanto incamera dall’affitto, è incentivato ad affittarlo, in primis, e a non alzare troppo il prezzo di conseguenza. Difficile dire meglio di quanto ha commentato subito a caldo il presidente della Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa: «La necessità della cedolare era talmente evidente che a richiederla erano state anche le associazioni dei commercianti, convinte anch’esse che l’eccesso di tassazione sui proprietari dei locali affittati ostacolasse l’apertura di nuove attività. In assenza della cedolare, che era stata prevista per i contratti stipulati nel 2019, il proprietario è infatti soggetto all’Irpef, all’addizionale regionale Irpef, all’addizionale comunale Irpef e all’imposta di registro, per un carico totale che può superare il 48 per cento del canone e al quale deve aggiungersi la patrimoniale Imu-Tasi, oltre alle spese di manutenzione dell’immobile e al rischio morosità (per non parlare degli effetti provocati dalla preistorica regolamentazione dei contratti di locazione interessati)».
Nicola Porro, Il Giornale 11 gennaio 2020