Huawei, il simbolo della guerra tra Stati Uniti e Cina

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Lo scontro sui dazi fra Stati Uniti e Cina è molto più che una guerra commerciale. È l’annuncio di un vasto cambiamento nei rapporti internazionali: meglio ancora, indica l’avvio di un riassetto dell’ordine mondiale che riallinea nemici, avversari, amici, neutrali. Un po’ come accadde nel 1946 quando finì l’alleanza di Yalta (Usa, Urss, Uk) e in breve si formarono i due campi contrapposti della guerra fredda. Oppure come nel biennio 1905-07 quando la Russia, dopo la sconfitta navale col Giappone, si rivelò – agli occhi inglesi – abbastanza debole da essere cooptata nell’alleanza con francesi e nipponici volta a contrastare l’”assalto tedesco al potere mondiale” (alla fine però creando due fronti antagonisti pronti a scannarsi nelle trincee).

Oggi la rivalità tra americani e cinesi, serpeggiante da anni, acquista due tratti nuovi e forti che le permettono di disciplinare i rapporti mondiali ovvero di raccogliere attorno a sé, in quanto pivot, le diverse potenze schierandole da un lato o dall’altro. Il primo tratto è la sua figura esplicita: la rivalità si dichiara come scontro, perde quelle ipocrite dissimulazioni che in passato l’avevano velata nella forma di una collaborazione competitiva (essenzialmente in ambito economico-finanziario). Il secondo tratto si esprime nella scelta del campo di battaglia – la tecnologia digitale, il controllo su quegli snodi della circolazione di conoscenze che sono oggi il fulcro della potenza.

Huawei è il simbolo e il discrimine dello scontro. Con la sua lunga filiera di operazioni, che arriva fino all’intelligenza artificiale, vuole porsi come l’infrastruttura di trasmissione dove passano le informazioni di tutto il mondo: ma ciò rende la rivalità con gli americani uno scontro alla lunga non componibile. La rivoluzione digitale non ammette un condominio di potenza: gli Stati Uniti, la potenza sfidata che ha inventato le applicazioni e i contenuti digitali, esprimono nel settore un’inevitabile ambizione totalitaria e non possono cedere il versante della distribuzione. Ne sarebbe minacciato il cuore stesso della loro supremazia tecnologica e anche qualcosa di più.

I dati sono potenza militare, non solo economia. Per questo il digitale fa differenza: uno Stato, se appalta le reti avanzate di distribuzione cognitiva a un’azienda che di fatto è protesi della struttura di potere cinese, non protegge più la propria sicurezza. Per gli Stati Uniti diventa inaffidabile: consegnandosi, si schiera.

Ed è proprio per questo motivo che, quando Trump – interrompendo con un atto politico decisivo lunghi anni d’incertezza – indica la Cina come rivale primo, in Europa arriva al culmine la confusione strategica. La Germania conferma la scelta Huawei e il segretario di Stato Usa annulla alla vigilia un incontro con Merkel; il Regno Unito, che da tempo ha legami fortissimi con Pechino, cerca di salvare – con acrobazie filosofiche sulla natura della rete – i contratti cinesi; l’Italia firma accordi quadro e poi trova amare sorprese americane, dalla Libia a Carige. In generale l’Europa del XXI secolo, dedita soprattutto ai surplus commerciali, ha molto parlato di solidarietà atlantica, ha sfruttato a costo quasi zero la sicurezza militare fornita dagli Stati Uniti e ha flirtato con passione coi nemici degli americani, dall’Iran alla Cina (a cui si allinea per la comune strategia mercantilista). Già Obama denunciava gli europei come free rider, ma poi si limitava a spiare il telefono della Merkel. Non è più tempo di ambiguità: ma scegliere – nei fatti, non a proclami – oggi è molto costoso.

Quasi ovunque, ora, i fronti si compattano. In Nord Africa e in Medio Oriente lo scontro fra sauditi – in asse con Israele – e iraniani tende ad assorbire ogni altra rivalità: i turchi ripiegano ambizioni troppo vaste, i palestinesi diventano irrilevanti o iranizzati, le mosse diplomatiche dell’Iran fanno da sponda (sollecitata) alla Cina che fronteggia la guerra commerciale di Trump. Nel cortile di casa latino-americano prosegue – con i processi stile Mani Pulite o con le pressioni economiche – il riallineamento verso gli Stati Uniti. In Asia e oltre, civiltà diverse, da sempre lontane, come India, Giappone e Australia, che a vario titolo temono (molto) la potenza cinese, intensificano accordi e scambi.

Qualche conclusione emerge con evidenza. Primo: è in atto uno scontro per la supremazia mondiale che si qualifica come tale in quanto investe la frontiera tecnologica, essenziale non solo per il primato economico ma anche – e soprattutto – per la crescita della potenza militare. Secondo: l’Europa, che con la sua fantasmagoria di soft power e perfezione giuridico-morale pensava di tenere insieme interessi opposti, è costretta a scegliere e ora non sa come fare. Terzo: le alleanze sono cruciali e sul tema Trump fa un po’ fatica. Quarto: per entrambi i campi l’alleato fondamentale è la Russia che dal 1991 l’Occidente ha fatto molto per allontanare da sé.

Antonio Pilati, 15 maggio 2019

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