Si può in cento giorni distruggere tutto quel si ha, autodistruggersi in una sorte di eutanasia civile e politica (e mai espressione fu più azzeccata di quella di “dolce morte”, sol che si pensi alle festanti immagini di qualche settimana fa in cui svolazzava fra risi e gioie sollevato con aerea leggerezza in una trattoria napoletana). A Luigi Di Maio, detto Giggino, l’impresa è riuscita alla perfezione. Era il 21 giugno, un martedì, quando, dopo un voto non conforme sulla guerra in Ucraina dei Cinque Stelle guidati dal suo acerrimo nemico Giuseppe Conte, l’allora (improbabile ma reale) ministro degli Esteri, seguito da un folto gruppo di parlamentari, usciva dal Movimento che gli aveva dato (immeritati) onori e glorie all’insegna dell’“uno vale l’altro”, per creare un partito tutto suo, e a sua immagine e somiglianza, di stretta osservanza draghiana.
Era l’inizio dell’estate, ma anche dell’ultima in cui il nostro avrebbe ballato. Anche se, come dicevo, il rapido declino e l’agonia sarebbero stati vissuti col sorriso in bocca. Intanto, per uno di quegli effetti “perversi” che la politica porta spesso con sé quella defezione ha lavorato proprio per Conte: portandosi via i filo-draghiani, Di Maio ha fatto sì che l’ex presidente del Consiglio si ritrovasse un partito con una identità più definita sul versante movimentista e di sinistra assistenzialista. La conflittualità interna al Movimento è così diminuita di colpo, con Conte che ha trovato qualcuno che ha fatto per lui quel “lavoro sporco” di epurazioni e dinieghi che da solo forse non sarebbe riuscito a fare. Ribadita perciò con più facilità da parte di Conte la volontà di non appoggiare il governo, lo stesso Draghi, che “teoricamente” Di Maio avrebbe voluto favorire, si è indebolito così tanto da non riuscire più a chiudere le falle che lo hanno portato alle dimissioni. Anch’esse ascrivibile pertanto, in ultima analisi, all’avventata mossa dell’uomo di Pomigliano. E senza la sponda di Draghi è risultato evidente che Di Maio era ormai un isolato.
Il consenso lui e per Impegno Civico, come con non molta aveva fantasia aveva chiamato il suo partitino, secondo quando attestavano tutti i sondaggi, non solo non decollava, ma languiva. D’altronde, per quale oscuro motivo un cittadino avrebbe dovuto votare per un simpatico giovanotto napoletano trovatosi per caso ai vertici del potere e che, senza un’idea fissa, era passato nel giro di pochi anni, anzi mesi, dall’appoggio ai gilet gialli francesi ai tappeti felpati della Farnesina, oppure da fautore dell’impeachment per il Capo dello Stato a ossequioso fan di Sergio Mattarella? Forse solo un suo compaesano avrebbe potuto votarlo, considerata la indubbia generosità clientelare del nostro verso amici e compagni presenti e passati.
A quel punto gli è venuto incontro un’altra vecchia volpe della politica nostrana, l’eterno Bruno Tabacci, che, guarda caso, ha fatto proprio il 25 settembre l’unico seggio che Impegno Civico è riuscito a conquistare. A conclusione di questa incredibile e surreale parabola, le notizie di questi giorni: Tabacci ha iniziato trattative per traghettarsi nel Pd, mentre il nostro è scomparso dai radar e si è cancellato pure dai social. E poiché oggi il privato è sempre più pubblico, voci sempre più insistenti vorrebbero anche la mediatica fidanzata Virginia Saba col cuore lontano dal suo. Una tempesta perfetta! Oggi il “povero” Di Maio più che uno “scappato di casa”, sembra uno che a casa sta per ritornare. Da baby-pensionato.
Corrado Ocone, 9 ottobre 2022