John Elkann ha scritto: “Sergio Marchionne ci ha salvato, ma non tornerà più”. Franzo Grande Stevens ha raccontato cosa è successo. Mike Manley è diventato Ceo di Fca. Le Borse hanno parlato. A questo punto, posso dirti, caro Sergio: mi spiace tanto, e grazie di cuore per tutto quello che hai fatto per la “nostra” Fiat. Pensa i casi della vita: ho avuto il privilegio di essere stato operaio con Vittorio Valletta, analista e investitore con Sergio Marchionne, i due estremi alti di una grande storia. Curioso, no?
Come sai, nelle mie analisi ho sempre sostenuto che ci sono stati due Marchionne. Il primo, dopo il grande lavoro fatto dal 2004 in avanti (GM, Convertendo, riposizionamento strategico e industriale) aveva dovuto prendere atto, all’inizio del 2009, pur sapendo di aver fatto un capolavoro manageriale, dell’impossibilità di salvare Fiat Auto, neppure Mandrake ci sarebbe riuscito (i numeri erano lì, spietati, persino Moody’s l’aveva certificato). Ma c’è un secondo Marchionne, questi si palesa un paio di mesi dopo, con un’intuizione fulminante e coraggiosa: Chrysler poteva essere la chiave per salvare in extremis Fiat Auto, e saranno i contribuenti americani a pagarne il prezzo. Sei stato geniale, per dieci anni hai fatto un lavoro straordinario, hai reso felici e ricchi gli azionisti e gli investitori che hanno creduto in te (moltiplicatore 10!).
Con la tua uscita da Fca, oggi posso aggiungere la parola che mancava (“rinascita”) per completare il “mio” quadro sinottico degli ultimi 70 anni della “mia” Fiat. Eccolo.
1 1947-1966: l’Impero
2 1966-1980: la Scelleratezza
3 1980-1995: la Viltà
4 1995-2004: la Confusione
5 2004-2009: la Fine (attesa della)
6 2009-2018: la Rinascita
Sono stati 70 anni di successi e di crisi, fino all’ultima, la più devastante, che grazie a te oggi possiamo battezzare con il termine “rinascita”.
Trent’anni fa ho avuto un’opportunità simile alla tua, che è poi il sogno di ogni manager che voglia confrontarsi con il “sesto grado” del business e del management: risanare-integrare in contemporanea due aziende, una europea, l’altra americana, entrambe di nobili lombi, entrambe tecnicamente fallite e quotarle a Wall Street. Premetto che il mio caso (trattori, macchine agricole, movimento terra) era meno complicato del tuo. Il business dell’auto è il più difficile al mondo, perché è l’industria delle industrie, con implicazioni sociali incredibili.
Nessun paese che possieda quest’industria è disposto a privarsene, a fronte di una crisi sono pronti a tutto, anche a “nazionalizzare”, parola impronunciabile ai tempi del ceo capitalism imperante. In realtà, la non nazionalizzazione vale solo per gli altri, nei paesi seri l’interesse nazionale ha sempre la priorità. E il business dell’auto è interesse nazionale, sempre e comunque.
Come hanno fatto, in modo mascherato ma sostanziale, Barack Obama con Chrysler, affidando poi la stessa a te, caro Sergio che infatti hai portato a Detroit il Quartier Generale e la materia grigia del business e degli uomini (ridicole le critiche a te su un atto dovuto: i quattrini erano dei contribuenti americani, punto), la stessa Margaret Thatcher in occasione del fallimento Leyland, affidando, nella sostanza, l’industria dell’auto inglese ai giapponesi in cambio del mantenimento dei livelli occupazionali, non parliamo dei francesi (statalisti in purezza), o dei tedeschi (Angela Merkel ha obbligato General Motors “venditore” di Opel e Peugeot “acquirente” a dare a lei (sic!) garanzie occupazionali in Germania. Così sta facendo Donald Trump. Oggi il petrolio è il posto di lavoro, nessun paese non idiota è disposto a farselo portare via per nessuna ragione.
In questi dieci anni ti ho studiato, caro Sergio, per capire che tipo di Ceo tu fossi, estremizzando quello che chiamo il “dilemma del Ceo”: 1. Fare gli interessi degli azionisti, punto? 2. Fare gli interessi dell’azienda, cioè degli stakeholder dei quali gli azionisti sono primus inter pares? Personalmente mai ho avuto dubbi: buona la seconda. Non ho mai capito se tu fossi del primo tipo o del secondo, in realtà, lo confesso, propendevo, stante certi tuoi atteggiamenti guasconi, per il primo. Per questo ti ho spesso definito deal maker.
Poi, in questi giorni, leggendo frammenti del tuo pensiero (privato), colti in molte delle persone che ti hanno conosciuto, ho scoperto un altro Marchionne. Una locuzione-sintesi l’ho trovata in un bel pezzo di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. Racconta un colloquio con te alla vigilia di Natale di un paio d’anni fa. Preferisco riportarlo tal quale “Mi disse di essersi ritrovato a parlare negli Stati Uniti a una platea di finanzieri assetati di sempre maggiori profitti a scapito dei lavoratori. E di avere pensato, mentre li guardava negli occhi, che prima o poi l’avidità li avrebbe distrutti. Mi spiegò il paradosso di un sistema dove il lavoratore e il consumatore sono la stessa persona: impoverendosi il primo, scompare il secondo. Qualche Emiro che compri una Ferrari lo troverò sempre, ma se il ceto medio finisce in miseria chi mi comprerà la Panda?”
È stata un’illuminazione, ho capito che mi ero sbagliato, tu sei stato un manager, non un deal maker. Hai sintetizzato l’oscenità del ceo capitalism e di questa classe dominante occidentale che ci governa con le sue formulette, come meglio non si poteva. E non poteva essere diversamente, tu ed io siamo stati figli (prediletti) dell’ascensore sociale, quello che costoro, per avidità e con totale idiozia, stanno distruggendo. Così, la tua uscita da Fca diventa, almeno per me, ancora più struggente. Diamoci il cinque, caro Sergio.
Riccardo Ruggeri, 24 luglio 2018