È arrivato il momento di iniziare a unire i puntini. Perché forse non saremo alla crisi di governo, forse neppure alla pre-crisi (nome inventato dai giornalisti senza un vero perché) ma è ormai chiaro che l’esecutivo Draghi sia più vicino che mai all’orlo del baratro.
Il primo punto da cui occorre partire è questo: le parole di ieri di Mario Draghi. Il premier ha detto chiaramente, per la seconda volta in una settimana, che “senza M5S non c’è governo”. E lui non intende fare un bis: va bene essere “un nonno al servizio del Paese”, ma neppure l’ex banchiere è disposto a immolarsi per i partiti. Non dopo che lo hanno “fregato” qualche mese fa, quando lui sognava di salire al Colle e invece s’è dovuto accontentare di altri mesi – difficili – a Palazzo Chigi. Supermario pensa all’Italia, certo. Ma pure a se stesso. E non intende fare la fine di Monti.
Il secondo punto riguarda le scelte del Movimento Cinque Stelle. Dopo la scissione di Luigi Di Maio, i grillini non sono più il primo partito del Parlamento, ma restano una forza importante con il diritto – diciamolo – di fare le proprie scelte sull’esecutivo. In Francia hanno votato nel pieno di una guerra. La Gran Bretagna ha cacciato Boris Johnson pochi giorni fa. Non si capisce come mai solo in Italia chiunque voglia far sentire la propria voce venga subito definito come “irresponsabile”.
Questo non significa, ovviamente, che la letterina di Conte a Draghi sia stata cosa ben fatta. Né che i grillini facciano bene a scaricare il governo. Ma potrebbero farlo e non è detto che non decidano in tal senso. Giuseppi s’è detto non soddisfatto delle risposte date ieri dal premier all’incontro coi sindacati e con la successiva conferenza stampa. Il fronte dei movimentisti ribolle. E a Palazzo Madama Conte non ha il pieno polso della situazione. Si vedrà se Conte, l’uomo dei penultimatum, passerà dall’abbaiare al mordere. Stasera è prevista la riunione dei senatori pentastellati per decidere come comportarsi domani durante la votazione al dl Aiuti: fonti fanno sapere che gli eletti pensano di uscire dall’aula “ma non dal governo”. Il che, viste le regole del Senato, significherebbe alla fine dei conti non votare la fiducia a Draghi.
Terzo ed ultimo punto: è difficilmente immaginare che gli altri partiti accettino un simile equilibrismo grillino. Non votare, ma restare nel governo è roba da appoggio esterno: prima Repubblica. Silvio Berlusconi lo ha detto chiaramente: Draghi verifichi la maggioranza, non si può restare appesi ai grillini. Cosa succederà è tutto da vedere. Posto che Draghi a parole non è disponibile a un “bis” (ma neppure Mattarella lo era a un secondo giro al Quirinale…), Forza Italia pensa che “i numeri consentono di continuare a governare” anche senza M5S, però Draghi sarà comunque “l’ultimo premier di questa legislatura”. La Lega di Salvini ritiene invece che se il governo “salta”, allora bisogna “andare a votare” perché “non si possono passare 9 mesi sulle montagne russe”: “Noi non siamo disposti a restare in un esecutivo senza il M5S”. I centristi sono governisti per antonomasia. Dal M5S potrebbero fuoriuscire altri “governisti”, tipo ministri e sottosegretari. E il Pd? Letta è scosso: pensava di costruire un “campo largo” con Conte, ma le ultime mosse dell’ex premier lo stanno spiazzando. “Non ci sono ragioni perché il M5S non voti al Senato il decreto che parla al Paese con 20 miliardi per famiglie e imprese”, lamenta Malpezzi. Ma è chiaro che i dem non “controllano” più l’alleato. Che succede, allora: viene giù tutto?
Giuseppe De Lorenzo, 13 luglio 2022