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I 3 sigilli dell’antidemocrazia

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Tre casi tra i vari.

1. Marco Gervasoni scrive un tweet e si ritrova i carabinieri in casa dalle 7 del mattino alle 21 della sera perché coinvolto in un’inchiesta per vilipendio al presidente della Repubblica.

2. Un liceale di Fano protesta pacificamente e chiede di poter sedere al suo banco in aula senza indossare la mascherina – esattamente come prevedono le norme: in situazione statica e con distanziamento non c’è obbligo di mascherina – e subisce un Tso (trattamento obbligatorio sanitario).

3. Il disegno di legge del deputato Zan trasforma, come ormai è venuto fuori con chiarezza leggendo il testo, opinioni in reati e invece di prendere atto di questa situazione anticostituzionale si insiste nel voler tradurre il disegno in legge usando la maggioranza contro l’articolo 21 della Costituzione.

In un paese civile, questi tre fatti non solo dovrebbero allertare le coscienze ma non dovrebbero proprio accadere. Ma la nostra democrazia, come ha avuto modo di scrivere ieri sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, è difficile. Forse, è anche qualcosa in più di una “democrazia difficile”. Considerando i fatti – e, ripeto, tanti altri se ne possono citare, persino quello in cui si ipotizzò da parte dell’allora leader del M5S, Luigi Di Maio, di mettere il presidente Mattarella in stato d’accusa – si nota che ciò che si vuole neutralizzare e addirittura negare è l’anima stessa della democrazia liberale: il dissenso. Gaetano Salvemini diceva che senza dissenso non c’è libertà. Ora, proprio questo è il punto: la cultura politica italiana – e, direi, la cultura tout-court – ha una scarsa considerazione del principio teorico e morale della libertà. O, se volete, la può anche teorizzare ma per poi negarla nei fatti.

Quanto stiamo vivendo da un anno a questa parte – ma si può anche risalire più indietro nel tempo all’inizio di questa legislatura – ce lo dice con grande chiarezza. La risposta che è stata data all’epidemia è stata tutta giocata sul ricorso alle chiusure, ai divieti, al lockdown e, insomma, alla negazione della libertà e delle sue garanzie costituzionali. E, tuttavia, per capire il “caso italiano” ormai anche questa elementare considerazione è insufficiente. Infatti, per ottenere un risultato di controllo dell’epidemia – ammesso e non concesso che il lockdown funzioni – si può anche convenire nell’adottare misure d’emergenza.

È stato fatto anche in altri Stati. Ma in Italia, purtroppo, si è andati ben oltre la semplice adozione di misure restrittive e si è trasformata fin da subito l’emergenza in normalità, la sicurezza (ipotetica) in ideologia, e si è arrivati a teorizzare cose folli come il primato della salute sulla libertà, come se davvero fosse possibile l’esistenza della salute senza la libertà. E proprio su questa follia teorica e politica è partita la caccia a chi dissentiva o semplicemente viveva la situazione conservando equilibrio e buonsenso. In Italia le misure restrittive si sono subito trasformate in una cultura illiberale in cui il governante di turno si è presentato come una sorta di padreterno. Nemmeno la nostra indole nazionale tendente alla commedia ci ha salvati questa volta e si è caduti nella più totale stupidità del potere: ricorderete senz’altro la storia tragicomica dei 60mila assistenti civici.

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