Impensabile nel Paese dei tartufi una Cgil che non resti miscelata al PD, col segretario sindacale che finisce invariabilmente al Parlamento all’Europarlamento quando non alla presidenza di una Camera. In America ovviamente la musica democratica è la stessa, sindacati e partiti come articolazioni di un medesimo potere, senonché da quelle parti va succedendo l’impossibile e cioè che Sean O’Brien il capo di una delle organizzazioni più importanti, i Teamsters, un milione e trecentomila iscritti fra USA e Canada, ha negato il suo endorsement a Kamala Harris, la candidata Dem. È la prima volta dal 1996 e non è tutto, perché sondaggi più o meno riservati ipotizzano il voto al candidato opposto, Trump, nella misura di due a uno.
O’Brien è uno col pelo sullo stomaco, si muove come chi è consapevole del suo potere e sa come farlo pesare, uno, insinuano i maligni, che si prepara a scendere in lizza la prossima volta. Sarà, ma quello che è certo è che alla porta in faccia della candidata di sinistra, il boss sindacale ha fatto seguire una porta chiusa per il repubblicano, col quale peraltro aveva avuto rapporti per così dire preferenziali. Teamsters unisce camionisti e piloti di linea, autisti e magazzinieri, è una potenza nella filiera della distibruzione mercantile come in quella dei trasporti; il suo sostegno, se non fondamentale, è sempre stato quanto meno significativo nella contesa elettorale americana. E negli ultimi trenta anni non aveva mai fatto mancare l’appoggio alla coalizione di sinistra. Di colpo, tutto questo sembra evaporato e, a prescindere dalle reali intenzioni di voto e da quello che succederà nella fatidica notte di novembre, il colpo per Harris è devastante e non solo in termini di immagine. Se Trump, da magnate conservatore e spregiudicato, può ammortizzare la diffidenza, il populismo di sinistra di cui è imbevuta Kamala viceversa patisce una punizione dagli effetti potenzialmente micidiali. Ma come? Biden non si era proposto come il presidente più dalla parte dei lavoratori, dei colletti blu (che però la volta precedente avevano sospinto proprio Trump)? E chi l’ha fatto fuori e ne ha preso il posto, non ama presentarsi come l’unica voce credibile in grado di parlare a nome della working cass hero?
Ma le cose sono cambiate, non solo i gusti, le attitudini e le aspettative. Oggi un pilota d’aereo può percepirsi “operaio” e un fattorino, invece, riconoscersi nel ceto medio – ammesso che esista ancora, che sopravvivano certe distinzioni novecentesche. Sta di fatto che neppure il sostegno di 36 miliardi di dollari dall’amministrazione democratica al fondo pensione di Teamsters sembra bastare a confermare una fedeltà che pareva a prova di candidato, e che, improvvisamente, sembra castigare, al di là di ogni altra considerazione, convenienza o calcolo, la ambigua, spocchiosa esponente Dem. Che gode, sì, delle simpatie dei miliardari del pop, della finanza tecnologica (Musk a parte), del glamour hollywoodiano, ma non più dei tradizionali elettori di sinistra. Basteranno le Taylor Swift, le Bille Eilish, i Clooney a pareggiare il mancato afflusso, stimato almeno in 800mila voti, degli iscritti a Teamsters? Basterà la propaganda, che punta a vendere il prodotto Kamala come un vaccino, a fare sfoggio di ottimismo dopato, la classica strategia della profezia che si autoadempie, del “noi non possiamo perdere perché siamo migliori, perché l’altro è un criminale?
Altri sondaggi sembrano scettici e, per quello che ancora valgono i sondaggi, paiono preparare una clamorosa dèbacle per la vice di Biden. Il problema, per Harris, è che le ragioni del rifiuto, da parte dei lavoratori, ci stanno tutte, non sono inventate o gonfiate. La aspirante presidente Democratica incarna in tutto la mutazione di una sinistra completamente finanziarizzata, una sinistra d’élite, dei ricchi e per i ricchi. E si potrà dire che nell’America protestante e puritana si respira un altro tipo di populismo, che tra candidato azzurro e rosso non c’è mai stata gran differenza almeno negli ultimi 100 anni, che già i Kennedy erano dinastie verniciate di progressimo, ma dinastie; tutto vero, ma ragionando così si prende la faccenda alla rovescia: non è il candidato ma l’elettorato a contare, e Kamala Harris, come e più di Obama, oggi è in grado di intercettare i privilegiati, le star ma assai meno l’individuo di tutti i giorni, il cittadino comune. E ha vita più difficile di Obama, che almeno poteva giocare sulla novità razziale, un nero salito dalla piccola borghesia fino al sancta sanctorum della Casa Bianca: tutto già sperimentato, tutto già vissuto e, nell’ottica americana, non più emozionante.
Se è vero quello che di loro diceva Einstein: “Sono come bambini, e a volte possono diventare pericolosi”. Il candore cinico degli americani, il loro continuo bisogno di favole anche crudeli, di miti consumabili, non trova in Kamala Harris materia per il sogno; e non sarebbe una sorpresa se si scoprisse che l’imbuto di Instagram non corrisponde all’urna elettorale, che un clic non vale necessariamente un voto. Poi, certo, tutto resta a dimensione di congettura, stiamo solo cercando di capire, come il resto del mondo, di immaginare, come chiunque si ponga il problema del domani, ma una cosa non può essere smentita: l’enorme confusione in cui tutti sembrano annaspare, dai cecchini psicopatici ai lavoratori oltre l’orlo di una crisi di classe. È stato calcolato che la campagna elettorale della più grande “democrazia” al mondo brucerà la cifra assurda di 20 miliardi di dollari: per far che? Sì, grande è la confusione sotto il cielo ma forse non aiuta più che tanto avere come main sponsor una che usa per 200 volte in un anno il jet privato, e siccome non puoi dire che Taylor Swift è una str***, devi dire che il pianeta muore per colpa delle macchinette dei poveri.
Max Del Papa, 20 settembre 2024
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