Le grandi case del lusso nelle ultime settimane si sono trovate nell’imbarazzante situazione di non coprire con le vendite il costo degli onerosissimi affitti. Sono subito partite le richieste di riconsiderare le pigioni con i giganti quotati dell’immobiliare, da Wharf a Swire: niente. Le case di moda hanno dovuto rivedere i piani di retribuzione dei propri venditori, che fino a poco tempo fa erano per circa la metà su commissione delle vendite realizzate. Sono iniziati anche a Hong Kong ad arrivare salari minimi e riduzione degli orari di lavoro. Il Rosewood, un hotel di lusso appena aperto, e che doveva essere «the place to be» ha un tasso di occupazione ridicolo. Le grandi e storiche catene vendono le stanze a prezzi un tempo considerati ridicoli.
I cinesi non amano più Hong Kong. Per due motivi soprattutto. Le notizie dei disordini che arrivano a Pechino, Shenzen o Shanghai diciamo che non sono esattamente equilibrati. L’umore verso gli studenti che protestano in piazza non è certo quello che abbiamo noi europei. E anche, più banalmente, moneta cinese (che si è deprezzata rispetto al dollaro hongkonghino) e tasse fanno il resto. La Cina, viene quasi da ridere al solo pensiero, ha infatti deciso dal primo aprile del 2019 di abbassare l’Iva dal 16 aL 13 per cento. Dunque il tax free di Hong Kong è diventato proporzionalmente meno conveniente. Verrebbe da dire: cronache di un altro mondo. Ma è il nostro, e più vicino di quanto si immagini.
Nicola Porro, Il Giornale 23 novembre 2019