Due pesi e due misure

I comunisti sì, Meloni no: la folle teoria dei “democratici”

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fascismo meloni

Oggi inizia il longform di Repubblica su Giorgia Meloni. C’era da aspettarselo: mancano una quarantina di giorni alle elezioni e andrà avanti così per un bel po’. Si tratta in fondo del metodo Scalfari: trova un nemico e picchia duro per cercare di abbatterlo. Ieri era Salvini, il cattivone che chiudeva i porti; oggi Meloni, unica donna leader di partito cui non fanno credito per il semplice fatto di essere femmina.

La “grande inchiesta” di Rep non merita in realtà particolare attenzione, almeno per il momento. Molto era già stato detto e scritto, soprattutto nell’autobiografia della leader di Fdi. In assenza della Zuppa di Porro (torna preso, non preoccupatevi), facciamo però un po’ di rassegna stampa. E concentriamoci su questa frase contenuta nel pezzo firmato da una decina di giornalisti:

All’anagrafe Giorgia Meloni non ha nulla a che fare col fascismo del Ventennio. Ma il dato anagrafico non risolve il problema politico. Nata oltre trent’anni dopo. Non è nemmeno neofascista, nel senso storico del termine. Ma il suo partito, i suoi uomini al comando, la sua cerchia più stretta sono intrisi di quell’ideologia“.

Quindi, nonostante quello che ci stanno raccontando da giorni, oggi scopriamo che Meloni “non è fascista” (mettiamolo agli atti) e neppure “neofascista” (anche questo, lo registriamo). Però… però la sua colpa è che nel partito – oltre a ardere la fiamma tricolore che fu del Msi – ci sarebbe una “cerchia ristretta” di uomini “intrisi di quella ideologia”. Bene. Dunque Meloni non è camerata, ma visto che alcuni dei suoi in passato lo sono forse stati, ecco che il percorso verso un partito conservatore è del tutto vanificato. Poco importano le parole di condanna della Meloni in un video sul fascismo. Poco importa il fatto che FdI sia stato eletto e votato democraticamente. C’è una macchia, e va lavata.

Benissimo. Posto che si tratta di un ragionamento dal basso quoziente intellettivo, prendiamolo per buono. Però applichiamolo a tutti, non solo alla destra. Perché se Meloni non può permettersi di avere sulle spalle “uomini al comando” intrisi “di quell’ideologia”, ci chiediamo per quale motivo lo stesso teorema non sia mai stato applicato alla sinistra. Voglio dire: Giorgio Napolitano, che di questa Repubblica è stato due volte presidente, era comunista. Ma comunista vero. Lo stesso dicasi per Massimo D’Alema, che è andato a Palazzo Chigi nonostante abbia corso nel suo passato sotto le insegne rosse con falce e martello. Parliamo di un’ideologia sanguinaria, assassina, che ha impoverito milioni di persone (per informazioni: chiedere agli ucraini, ai polacchi e agli ungheresi).

Direte, ormai è acqua passata. Mica tanto. Uno dei volti della “nuova sinistra” è Roberto Speranza, ministro della Salute e leader di Articolo 1. Nel suo partito, tra i più insigni rappresentanti, c’è Pier Luigi Bersani, pure lui iscritto ed eletto sotto il simbolo del Pci. Inutile proseguire oltre perché, come dicevamo, si tratta di un ragionamento sciocco. Piccola postilla: il 23 e 24 aprile scorso, non decine di anni fa, all’assemblea nazionale di Articolo 1 i cronisti registrarono non pochi pugni chiusi in platea e il tutto si chiuse con L’Internazionale, canto ufficiale del comunismo e del socialismo di ispirazione rivoluzionaria. Tra le altre cose, fu inno nazionale dell’Unione Sovietica. Nulla da ridire?

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