I giudici decidono pure sul fine vita dei bambini

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Già l’idea che possa esistere un Comitato Nazionale di Bioetica, cioè una commissione di esperti di Stato che dia pareri più o meno vincolanti sulla vita nostra e dei nostri cari, ripugna un po’ alla sensibilità liberale. Sarebbe però irrealistico, e quindi anche patetico, mettersi contro il mondo e predicare contro lo “spirito dei tempi” moderni dall’alto di una turris eburnea. Così come ingiusto sarebbe poi non giudicare da un punto di vista meno contingente di quello cronachistico le risoluzioni o i pareri espressi da un tale consesso. Il quale, inutile dirlo, è anch’esso lottizzato dalla politica secondo gli infallibili dettami del “manuale Cencelli”.

In quest’ultimo periodo, il Comitato sembra si stia accanendo, e non sembri un gioco di parole, sul cosiddetto “accanimento terapeutico”, cioè sui tentativi che i medici fanno di tenere in vita i pazienti in “fase terminale”, come si dice. Dopo le persone vittime di traumi e incidenti, ora tocca ai bambini. Sollecitata da casi come quelli inglesi di Charlie Gard e Alfie Evans, il Comitato ha ieri stilato un parere, che porta la firma del presidente Lorenzo d’Avack, che in sostanza sottrae a medici e genitori la decisione sulla sospensione delle cure e l’affida ai giudici. I medici, secondo quanto scritto, sarebbero infatti accondiscendenti verso i parenti per evitare grane legali e i genitori non sarebbero “oggettivi” perché incapaci di accettare l’unica decisione da prendere, cioè quella di “staccare la spina”.

Ove, si noti, l’affetto filiale viene considerato “irrazionale” e la decisione di portare a morte viene data invece come scontata perché fondata su dati “scientifici” (quasi come la scienza fosse infallibile e non opera di uomini) e “etici”a (secondo un concetto di “dignità” riempito di contenuti a priori). Il tutto poi nell’interesse e per “il superiore interesse del bambino”, ovviamente deciso da uno Stato etico di soloni a pagamento! È evidente che oggi la tecnica permetta cose un tempo inimmaginabili, ma questo è un fatto di cui dovremmo essere solo felici: essere attaccati alla propria vita e poterla conservare è, prima che un dovere, un istinto primario delll’umanità. La quale, a ben vedere, dice un sì esplicito in ogni momento alla vita, semplicemente campando e non suicidandosi. Lo dice già il bambino che esce dal grembo materno e che si protende ad afferrare la madre che lo ha generato e che sente come una sua difesa. Già solo per questo si entra in una dimensione religiosa: la vita umana non può essere che essere considerata “sacra” e “degna” di essere vissuta a prescindere.

Oggi invece assistiamo a un doppio movimento che inquieta e che non esiterei a definire antivitale: da una parte, ci si preoccupa di sentenziare e definire a priori fino a quanto e in che misura la vita sia “degna” di essere vissuta; dall’altra si tende di annullare il primato ontologico della vita umana in un piatto naturalismo materialistico che è figlio della mentalità illuministica. Non meraviglia allora che si tenda di sovvertire addirittura la logica che presiede alle cose umane: ci si preoccupa non di preservare la vita, ma di dare la morte. Non di alleviare il dolore e scoprire nuove tecniche di guarigione, ma di mettere la fine ad una vita innocente con il sigillo della legge e il timbro dello Stato.

Corrado Ocone, 8 febbraio 2020

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