di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Dopo le decisioni di ieri del governo di Draghi ormai qualsiasi discorso può sembrare inutile. Noi ci proviamo ancora, ma è evidente che la nostra non è più una Repubblica fondata sul lavoro, perché il lavoro ora lo puoi anche perdere se non accetti quello che di fatto è un trattamento sanitario obbligatorio. E tuttavia consentiteci ancora una riflessione, su questo che resta ancora uno dei pochi canali liberi.
Due giorni fa abbiamo già scritto della Risoluzione n. 2361/2021 del Consiglio d’Europa in tema di vaccinazione anti-Covid19. Per completezza aggiungiamo una successiva Risoluzione, la 2383/2021, che va nella medesima direzione. Si tratta di Risoluzioni per noi non direttamente vincolanti, emanate da un organismo estraneo alle istituzioni dell’Unione europea. Vanno però considerate come una sorta di linea guida per tutti i Paesi europei, poggiate in questo caso su due pilastri: 1. il divieto dell’obbligo vaccinale e delle pressioni per spingere i cittadini a vaccinarsi; 2. il divieto di discriminazione nei confronti di chi non intende sottoporsi a vaccinazione. Entrambe le Risoluzioni sono cadute nel vuoto cosmico.
Ma c’è qualcosa che nel vuoto non può cadere, anzi, c’è addirittura un obbligo di applicazione in luogo della legislazione nazionale. Stiamo parlando del Regolamento Ue n. 953/2021 del 14 giugno, quello che dal 1° luglio ha introdotto il green pass per gli spostamenti dei cittadini europei all’interno e tra i Paesi della Ue. Il Regolamento, emanato dalle istituzioni dell’Unione, al punto 9 della premessa mette in guardia tutti gli Stati membri perché “le misure unilaterali” dei singoli Stati “atte a limitare la diffusione del Sars-Cov-2 potrebbero causare perturbazioni significative dell’esercizio del diritto di libera circolazione e ostacolare il corretto funzionamento del mercato interno, compreso il settore del turismo”. Di contro, il governo italiano, con decreto-legge n. 105 del 23 luglio 2021 prevede l’obbligo del green pass proprio nel bel mezzo della stagione turistica (a partire dal 6 agosto), mettendo in ginocchio quel mercato interno che la Ue voleva tutelare.
Il Regolamento prevede anche, al punto 48 della premessa, che l’Unione europea ha il compito “in materia di protezione di dati” di garantire la prevenzione da “discriminazioni e abusi”, nel rispetto della normativa europea sulla privacy (Reg. n. 679/2016). Aspetto interessante è anche quello di cui al punto 14 della premessa, che pone l’obiettivo – nell’utilizzo del green pass – di “non discriminazione per quanto riguarda le restrizioni alla libera circolazione durante la pandemia”. L’Italia sta andando, invece, nella direzione opposta.
Ma c’è di più. All’art. 3, comma 6, il Regolamento è ancora più esplicito: “il possesso dei certificati […] non costituisce una condizione preliminare per l’esercizio del diritto di libera circolazione”, mentre il nostro decreto-legge n. 105/2021 limita addirittura l’ingresso in bar, cinema o ristoranti, luoghi di cultura, al chiuso, arrivando persino ad impedire la partecipazione ai concorsi pubblici a chiunque sia sprovvisto del green pass.
Il decreto-legge adottato il 23 luglio dal governo Draghi non rispetta il Regolamento Ue neppure sotto l’aspetto del trattamento dei dati personali, infatti dal 6 agosto camerieri, barman, maschere e altre tipologie di mestieranti dovranno controllare sia il regolare possesso del green pass che il QRCode, mentre l’art. 10 del Regolamento, terzo comma, prevede espressamente che “i dati personali inclusi nei certificati […] sono trattati dalle autorità competenti dello Stato membro di destinazione o di transito, o dagli operatori di servizi di trasporto passeggieri”. Non si fa cenno a personale dipendente di bar, ristoranti o cinema.
Su alcuni di questi aspetti ha posto l’accento l’europarlamentare della Lega Antonio Maria Rinaldi, che il 28 luglio – a ridosso dell’entrata in vigore del decreto legge n. 105/2021 – ha presentato una interrogazione in sede di Parlamento europeo con la quale ha sottolineato come il decreto-legge italiano sia in contrasto con i valori fondanti della Ue sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, chiedendo alla Commissione europea di chiarire se ritiene che la normativa italiana rispetti il principio di non discriminazione espressamente sancito dal Regolamento Ue n. 953/2021. Alla luce del nuovo decreto questa interrogazione è ancora più importante.
Abbiamo dunque da un lato il Regolamento Ue n. 953/2021 del 14 giugno e dall’altro il decreto-legge italiano n. 105/2021 del 23 luglio, e quello di ieri che sono in palese contrasto con il primo. Nella scala gerarchica delle fonti del diritto, Regolamento Ue e legge ordinaria si pongono sullo stesso piano, ma con una differenza: non esistendo tra loro un rapporto gerarchico, la Corte costituzionale – con Sentenza n. 170/1984 – ha sancito la preminenza del diritto comunitario su quello interno attraverso l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la norma di diritto interno in contrasto con la normativa europea. A questo punto, a partire dal 6 agosto, i cittadini italiani che si sentissero discriminati per via dell’applicazione del green pass nazionale, potranno rivolgersi al giudice ordinario e chiedere la disapplicazione del decreto-legge n. 105/2021 e l’applicazione del Regolamento Ue n. 953/2021.
Una volta tanto il “ce lo chiede l’Europa”, usiamolo noi. Tentar non nuoce.