Reportage

I Kalasha, la tribù che vive col sorriso e senza paura - Seconda parte

Sono rari persino i cellulari (cosa eccezionale, ho trovato smartphones anche negli astucci penici delle tribù di Papua Nuova Guinea) e non c’è internet. Non si sono convertiti né all’induismo prima, né all’islam poi, ma hanno mantenuto la loro religione animista politeista, con il suo ideale di purezza (tutto ciò che è a contatto con i musulmani è impuro) e con un dio creatore dai vari nomi (in cui si ritrovare la radice linguistica “zeus”) e la loro schiera di divinità messaggere. Non credono nella reincarnazione, ma parlano con spiriti e antenati, e la morte sembra interessarli pochissimo, tanto le anime si ritrovano nel lago turchese in cima alla montagna. Come la morte, anche l’età sembra non contare molto. Nessun vecchio sa quando è nato e quanti anni ha. Una sorta di approssimazione generale permea questa cultura, come se anche il tempo non fosse arrivato qui.

I Kalasha e la festa della primavera

Domani inizia la festa della primavera, gli uomini arrivano da tutti i villaggi, vengono a scegliere le donne da corteggiare. E le donne – di tutte le età – indossano come sempre i loro abiti neri bordati da grandi decorazioni dai colori sgargianti, i copricapi di cauri e coralli di foggia tibetana (i kupass), le mille collane, e aggiungono fiori, piume, decorazioni varie. La cerimonia è uno scoppio di colori. Bambine nei vestiti coloratissimi corrono  lungo le stradine di terra tra le case di legno. Dalle scale scendono lente le vecchiette, trecce grigie e bianche, occhi cerulei. Fiori gialli e ceste di gelsi e noci. I neonati con i visi scuriti dal fango – le mamme li nascondono, sono troppo belli e gli dei potrebbero prenderseli. Le donne si abbracciano, baciano i bambini, gli uomini sul tetto del tempio. Lo sciamano in alto, oltre il villaggio, su un terrazzamento segnato da totem, alza le braccia agli dei e si versa il vino sulle braccia (il vino qui ha scopo rituale, come nell’antica Grecia) all’ombra di una quercia.

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Poi le donne iniziano a danzare, a gruppetti di 3 che poi si uniscono, ruotano girando in cerchio sullo spiazzo del villaggio. Le collane e le chiavi di casa appese al collo (sono le donne a tenerle,  il potere è loro) sobbalzano. Vecchie e bambine, piume, fiori, colori brillantissimi. Poi i cerchi si distendono, piccoli passi al ritmo ancestrale dei tamburi, le donne hanno rinchiuso tutti gli uomini all’interno di una corda e ballano intorno scherzando. Gli uomini agitano ramoscelli di foglie di noce che si muovono insieme alle piume colorate sui loro pakol. Si alzano nuvole di polvere, mentre le donne ruotano e si muovono in cerchi al suono dei tamburi ipnotizzanti e dei canti, in un rito di corteggiamento collettivo.

Le donne kalasha possono divorziare facilmente, risposarsi, avere amanti. Qui si balla e si beve alcool. Di fronte a ciò, non si può non riflettere su quanto la religione determini lo stile di vita, su quanto ogni weltanschauung sia condizionata dal pensiero religioso. È incredibile, come a soli 30 km da qui, le donne con il burka si nascondono, e qui queste donne dagli occhi azzurri ad ogni passo mi salutano – ishpaat – e mi invitano nelle loro case. Qui dove non c’è internet, ma dove le ragazze delle case di legno sorridono, e si chiamano Gulbahar, fiore di primavera. E chiedo se non temono i talebani, ma loro sorridono, e con quel sorriso mi dicono che non si può vivere avendo paura del mondo. Neppure del mondo cupo che ho attraversato per arrivare fino a qui. I Kalasha, senza armi e senza nulla, chissà quanto resisteranno, mentre oltre la valle i pashtun si armano, come fa sempre chi in fondo ha paura della diversità e varietà del mondo.

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