I Kalasha, la tribù che vive col sorriso e senza paura

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Luisa Bianchi, ex avvocato milanese nel settore del private equity e M&A, ha lasciato la professione dieci anni fa per dedicarsi alle sue vere passioni: l’arte, i viaggi e l’antropologia. Globetrotter full-time, ha visitato oltre 100 paesi del mondo, raccogliendo materiale e testimonianze fotografiche di realtà tribali ed etnie in via di sparizione, in una costante esplorazione alla ricerca delle radici dell’uomo. Quando non è in viaggio, vive tra Londra, Parigi e Milano. Il reportage che qui pubblichiamo è il risultato del suo recentissimo viaggio nel Pakistan nord-occidentale, dove è andata ad incontrare la tribù dei Kalasha nelle montagne dell’Hindu Kush.

La scorta armata ci affianca poco prima di Peshawar, non appena entriamo nel Khyber Pakhtunkhwa, l’ex provincia della North West Frontier. Città di frontiera, dentro le mura antiche di Peshawar  un ininterrotto flusso di tuc tuc, carretti, uomini in lunghi shalwar kameez e berretti bianchi, si muove tra fili elettrici penzolanti nel labirinto di stradine, tra antiche case in rovine, vecchie botteghe di legno e caravanserragli i cui colori si sono persi nel sole e nella polvere. Da qui, verso nord, la strada sale tra camion coloratissimi e villaggi polverosi nelle montagne dell’Hindu Kush. Il confine con l’Afghanistan è sempre più vicino. Costeggiamo le FATA, Federally Administered Tribal Areas, da poco riconosciute territori del Khyber Pakthunkwa ma ancora inaccessibili: sono zone in cui gli estremisti religiosi si sono ricavati aree di sostanziale autogoverno. Territori tribali, dove il governo pakistano ha scarso controllo e dove l’islam più rigido e il codice d’onore ancestrale delle genti pashtun è stato l’humus ideale per i talebani. I 4 uomini del commando anti terrorismo resteranno con noi fino a quando non raggiungeremo Chitral, 300 km più a nord, all’imbocco delle terre dei Kalasha. È quella la mia destinazione, un’etnia la cui origine è ancora misteriosa, nonostante le indagini genetiche stiano svelando a poco a poco come dietro a quei capelli biondi e occhi azzurri vi sia un incredibile pool genetico.

Attraversando la terra pashtun

Attraversiamo territori che paiono abitati solo da uomini. Etnia Pashtun, bellissimi, alti, occhi magnetici, barbe nere, i pakol di lana in testa e i lunghi shalwar kameez. Fino a qualche anno fa il loro abbigliamento tradizionale prevedeva anche fucile e cartuccera, ora l’hanno vietato, anche se un AK47 si può tranquillamente acquistare al bazaar senza alcuna licenza. Donne velate nei colori della sabbia, appaiono come fantasmi svolazzanti nella polvere, i bambini in braccio e per mano. Non si vogliono far fotografare neppure sotto il burka che le copre integralmente. Come si riconosceranno tra di loro? Forse dalle scarpe? Senza volto, senza voce, nascoste nelle case di mattoni di fango e lamiera. Si è detto tanto su questa realtà, ma vederle così, in questo medioevo parallelo, è sconvolgente.

Gli uomini, seduti davanti alle porte di legno delle botteghe, mi fermano curiosi, qualcuno che parla inglese mi chiede cosa ci faccio lì. Non con aggressività, ma con stupore. Sanno l’immagine che quelle zone hanno in Occidente, e mi ringraziano di essere lì. Si fanno fotografare – insopprimibile narcisismo maschile – e sorridendo esclamano Allah u akhbar quando gli recito in arabo l’incipit delle sure. La voce imperiosa e modulata del muezzin sospende periodicamente  la realtà, tutto si ferma per la preghiera. Ma in fondo qui tutto pare già fermo da sempre. Qui non è arrivato il tocco munifico dell’Aga Khan, che quale capo spirituale degli ismaeliti ha elargito cospicue donazioni nelle Northern Areas. E neppure è arrivato il pragmatico e ingombrante segno dei cinesi, che lungo la KKH (Karakorum Highway) verso sud stanno conquistando senza tanto clamore anche questo paese. Questa è terra pashtun, terra di talebani, di polvere e povertà. Qui sono tutti sunniti, conservatori e tradizionalisti. A scuola non si insegna geografia (veramente neppure in Italia ora), né lingue straniere: i ragazzi non devono essere invogliati a scoprire il mondo. Che poi tanto non riuscirebbero ad andarci, uscire dal paese e’ difficile e costoso.

Entrare in un altro mondo

Oltre il Lowari pass, lungo una strada tutta buche e rocce franate, larga quanto una macchina, letteralmente incisa nella parete verticale della montagna, vado dritta verso la linea di confine afghana, nel cuore dell’Hindu Kush, verso la storica regione del Kafiristan, la terra degli infedeli. Ed entro in un altro mondo.

Le tre valli dove si sono ritirati i Kalasha sono l’immagine dell’eden: filari di pioppi tremuli lungo un fiume grigio che scorre tra massi enormi, boschi di noci, torrenti tra le case di legno. La valle è verde di terrazzamenti di riso e sorgo, alberi da frutto, pesche, albicocche, gelsi. Appaiono con le loro caprette, con fascine di erbe sulle spalle, sono ragazzini e donne Kalasha: i tratti ariani, gli occhi azzurri, la pelle chiara, hanno copricapi di perline sui capelli biondi. Ancora non si sa con certezza da dove siano arrivati: dal sud-est asiatico o migrazione indo-europea, i Kalasha si stabilirono verso il 2.500 AC  nei territori oggi divisi tra Afghanistan e Pakistan (Chitral, Swat, Nuristan). Qui transitò l’esercito di Alessandro Magno, durante la grande avanzata verso l’India, e uno dei suoi generale con la sua armata si fermò ad aggiungere un po’ di geni macedoni a questa etnia già composita. L’avanzata dell’islam li spinse sempre più sulle montagne, fino a farli rifugiare in queste tre valli inaccessibili, isolate nella neve per 5 mesi all’anno, a pochi kilometri dal Nuristan afghano (la terra della luce), dove ancora resistono alle conversioni forzate imposte dai sunniti, e dove ormai, gruppo sparuto di 3.000 persone, vivono in una bolla, talmente lontana dal mondo che e’ rimasta lontanissima nel tempo.

Sono rari persino i cellulari (cosa eccezionale, ho trovato smartphones anche negli astucci penici delle tribù di Papua Nuova Guinea) e non c’è internet. Non si sono convertiti né all’induismo prima, né all’islam poi, ma hanno mantenuto la loro religione animista politeista, con il suo ideale di purezza (tutto ciò che è a contatto con i musulmani è impuro) e con un dio creatore dai vari nomi (in cui si ritrovare la radice linguistica “zeus”) e la loro schiera di divinità messaggere. Non credono nella reincarnazione, ma parlano con spiriti e antenati, e la morte sembra interessarli pochissimo, tanto le anime si ritrovano nel lago turchese in cima alla montagna. Come la morte, anche l’età sembra non contare molto. Nessun vecchio sa quando è nato e quanti anni ha. Una sorta di approssimazione generale permea questa cultura, come se anche il tempo non fosse arrivato qui.

I Kalasha e la festa della primavera

Domani inizia la festa della primavera, gli uomini arrivano da tutti i villaggi, vengono a scegliere le donne da corteggiare. E le donne – di tutte le età – indossano come sempre i loro abiti neri bordati da grandi decorazioni dai colori sgargianti, i copricapi di cauri e coralli di foggia tibetana (i kupass), le mille collane, e aggiungono fiori, piume, decorazioni varie. La cerimonia è uno scoppio di colori. Bambine nei vestiti coloratissimi corrono  lungo le stradine di terra tra le case di legno. Dalle scale scendono lente le vecchiette, trecce grigie e bianche, occhi cerulei. Fiori gialli e ceste di gelsi e noci. I neonati con i visi scuriti dal fango – le mamme li nascondono, sono troppo belli e gli dei potrebbero prenderseli. Le donne si abbracciano, baciano i bambini, gli uomini sul tetto del tempio. Lo sciamano in alto, oltre il villaggio, su un terrazzamento segnato da totem, alza le braccia agli dei e si versa il vino sulle braccia (il vino qui ha scopo rituale, come nell’antica Grecia) all’ombra di una quercia.

Poi le donne iniziano a danzare, a gruppetti di 3 che poi si uniscono, ruotano girando in cerchio sullo spiazzo del villaggio. Le collane e le chiavi di casa appese al collo (sono le donne a tenerle,  il potere è loro) sobbalzano. Vecchie e bambine, piume, fiori, colori brillantissimi. Poi i cerchi si distendono, piccoli passi al ritmo ancestrale dei tamburi, le donne hanno rinchiuso tutti gli uomini all’interno di una corda e ballano intorno scherzando. Gli uomini agitano ramoscelli di foglie di noce che si muovono insieme alle piume colorate sui loro pakol. Si alzano nuvole di polvere, mentre le donne ruotano e si muovono in cerchi al suono dei tamburi ipnotizzanti e dei canti, in un rito di corteggiamento collettivo.

Le donne kalasha possono divorziare facilmente, risposarsi, avere amanti. Qui si balla e si beve alcool. Di fronte a ciò, non si può non riflettere su quanto la religione determini lo stile di vita, su quanto ogni weltanschauung sia condizionata dal pensiero religioso. È incredibile, come a soli 30 km da qui, le donne con il burka si nascondono, e qui queste donne dagli occhi azzurri ad ogni passo mi salutano – ishpaat – e mi invitano nelle loro case. Qui dove non c’è internet, ma dove le ragazze delle case di legno sorridono, e si chiamano Gulbahar, fiore di primavera. E chiedo se non temono i talebani, ma loro sorridono, e con quel sorriso mi dicono che non si può vivere avendo paura del mondo. Neppure del mondo cupo che ho attraversato per arrivare fino a qui. I Kalasha, senza armi e senza nulla, chissà quanto resisteranno, mentre oltre la valle i pashtun si armano, come fa sempre chi in fondo ha paura della diversità e varietà del mondo.

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