Non ci saranno manifestazioni di piazza per Marco Gervasoni. Non ci saranno catene digitali sulla rete. Il Presidente della Repubblica neanche saprà cosa è successo. Così come per tanti cittadini italiani che giustamente pensano a sbarcare il lunario. Eppure all’inferno si scende a piccoli passi. E alcuni di questi passi li abbiamo già percorsi. Vedete, Marco Gervasoni è uno storico. Ha una cattedra in una università pubblica e una a contratto alla Luiss, università autodefinitasi libera e pagata dalla Confindustria. Quest’estate ha fatto un tweet appoggiando un blocco navale di quelli tosti contro la Sea Watch. Come spesso avviene sulla rete è stato icastico, e ha persino appoggiato l’idea dell’affondamento dell’imbarcazione portata avanti da una forza politica.
Ma il punto non è ciò che ha scritto, è ciò che un professore può scrivere sulla sua bacheca personale. È la nostra libertà di parola. Gli americani la tutelano con il primo emendamento. Ebbene, al dipartimento di Scienze politiche della Luiss però non hanno gradito. E il suo boss, l’illustrissimo vincitore del premio Capalbio 2011, Sergio Fabbrini, ha deciso, con il collegio di docenti, di farlo fuori. Tra l’altro comunicandoglielo solo in questi giorni, a governo gialloverde deceduto. Gervasoni è dunque fuori dalla Luiss. Siamo certi che se ne farà una ragione. Qui infatti ci importa poco difendere Gervasoni (di cui pure abbiamo massima stima), vogliamo tutelare qualcosa di più importante. Gervasoni avrebbe potuto scrivere anche esattamente l’opposto, ma non è pensabile che una manciata di professori universitari si possa mettere intorno ad un tavolo e stracciare il contratto di un collega per ciò che scrive e dice fuori dal lavoro.
Ci stupiamo che il direttore generale della Luiss, tra una colazione ad Arcore e l’altra, non si sia accorto dove stia scivolando la sua università. Ci stupiamo che il presidente di Confindustria Boccia e il suo braccio destro Panucci non capiscano che finanziare un’università dal pensiero unico non faccia bene alla formazione. Ci stupiamo che professori e colleghi di Gervasoni, alcuni anche nel dipartimento, non siano balzati sulla sedia reclamando il diritto dei docenti di esprimere ciò che vogliono senza essere sindacati. Siamo certi che il vicepresidente di quella università, che si chiama Paola Severino – una donna coraggiosa che si batte contro le ingiustizie del nostro folle sistema burocratico-legale -, non sia al corrente di questa storiaccia: sarebbe una grande delusione, per chi scrive, sapere che anche la recente Cavaliere del lavoro si accoda ai tanti che confinano il free speech solo alla propria parrocchietta.
Tutti, infine, si sono dimenticati forse che in quella università, e proprio nel dipartimento di Scienze politiche, insegnavano Martino, Antiseri, Pellicani, Infantino, Da Empoli e tanti altri che oggi avrebbero orrore di un ateneo che censura e licenzia per un tweet.
Nicola Porro, Il Giornale 22 settembre 2019