Cultura, tv e spettacoli

I Maneskin in crisi torneranno alle origini (cioè a essere niente)

Il gruppo sembra essere ai titoli di coda dopo anni sulla cresta dell’onda

maneskin separazione

Per non essere mai esistiti, hanno resistito anche troppo. Questi Maneskin sono sempre stati un avatar: pompati senza essere niente, pompati adesso che non ci sono più, sono evaporati e i giornali lo insinuano, come sempre, per dinamiche commerciali, per preparare il terreno ad improbabili avventure soliste che vuol dire una truffa frammentata e moltiplicata per quattro. Di solito non funziona, simili entità pubblicitarie reggono finché reggono in quanto figurine del presepe, il cantante androgino senza carisma, la bassista senza reggiseno, gli altri due comprimari dalle facce non troppo sveglie di quelli usciti dalla desolazione domenicale di Spinaceto o Buccinasco.

Ne abbiamo visti tanti passare, senza lasciare traccia. I Maneskin, ma che nome è poi, che cazzo significa? Così, perché suona bene senza voler dire niente?, si debbono alla malizia, se non alla disonestà artistica, del ragionier Manuel Agnelli da Abbiategrasso, uno che ha proiettato su quattro ragazzini anonimi le sue frustrazioni di rockstar mancata e a 55 anni, dopo una carriera da illustre sconosciuto di nicchia, ha sbancato il Jackpot televisivo riuscendo a inventarsi un falso gruppo di falso rock passatista alla conquista del mondo. Agnelli è un abbonato in senilità a X Factor e gli va bene così, ma il rock è altro, non basta gozzovigliare con Paolo Bonolis, ed è altro rispetto ai ragazzini romaneschi che dopo dieci anni, come passa il tempo, dannazione, non lasciano che polvere di stelle, come la megastar Taylor Swift della quale nessuno ricorda una canzone.

Per la semplicissima ragione che le canzoni non ci sono, né debbono esserci. C’è il vuoto eternamente consumabile del rumore di fondo, i cliché, ci sono gli algoritmi, c’è il bum bum che intontisce ma non va da nessuna parte, c’è quel modo petulante di battere i piedi, “am beeeghin!”, ma per carità non chiamatelo musica, non chiamatelo rock. Una intrapresa multinazionale, fiumi di soldi investiti in immagine, in posa, in copertine, in rockstar vere, dai Rolling Stones a Iggy Pop, che concedono il loro sorriso ribaldo per lo spazio di un selfie, ci sono i giornali pagati per mentire, i pochi specializzati che dicono le cose come stanno, e cioè che questi bimbiminkia sono terribili, che solo dall’Italia melodrammatica poteva partire una truffa del genere, debitamente ignorati, e non manca la moda, i party, il contorno, in una noia mortale perché rock, anche se oggi non sta bene dirlo, vuol dire anche dannazione, violenza, decadenza, vuol dire il crinale della morte.

Ma questi stanno alla larga da tutto, da qualsiasi situazione lontanamente pericolosa o scabrosa, di questi si parla più delle griffe che del suonare. Cosa dicono gli imbecilli per legittimarli’ “Eh ma intanto riempiono, fanno un sacco di soldi”. Che equivale al solito straziante “i gusti sono gusti, chi sei tu per giudicare?”, con il che ogni ragion critica, ogni storicizzazione e contestualizzazione musicale se ne vanno allegramente a puttane. Ma non è quello che serve al postliberismo post culturale, post mentale, post tutto? Li hanno assoldati per fare prima i testimonial dei vaccini, poi della von Der Leyen che voleva essere rieletta e c’è riuscita. Che rockstar! E adesso, come per ogni prodotto a scadenza programmata, i giornali vengono gentilmente sollecitati a parlare della crisi, che è parlare del niente, dei proclami del ragazzo Damiano che dice “un disco da solo? Perché no?”, sapendo che è tutto deciso dall’inizio.

O della bassista che non sa tenere in mano un basso, che fa la deejay e sponsorizza le compagnie telefoniche. La crisi su qualcosa di irreale, che non c’è mai stato veramente? Funziona così. Si prendono quattro scappati, si crea il miraggio, che nel giro viene detto “l’hype”, la sensazione, la truffa visiva e quindi emotiva, gli si fanno vincere un paio di talent, tra cui Sanremo e magari l’Eurofestival genderizzato, si spinge sul prurito della sessualità eventuale e patetica, reggicalze per lui, si trova per fare paio qualche altra scappata che parla di sé, dei propri pruriti, ma in fama di attivista, non serve specificare di cosa, si cavalca il gossip, li si fa lasciare, si trovano altre amichetterie fluide per altre storielle di panna montata, tutto fuorché una decenza artistica, che non a caso si cerca di millantare negli improbabili riferimenti al passato, si parla dei pienoni, dei soldi fatti girare, di quanto valgono, il trionfo del liberismo post tutto, del soldo per il soldo per il soldo, gli anni passano, si arriva alla disintegrazione del nulla e i tempi sono maturi per le carriere solite.

Che di solito falliscono ignominiosamente, ma anche questo è messo in preventivo; allora si rilancia il clamoroso ritorno di una entità mai esistita, quattro o cinque anni di pettegolezzi sul vuoto, si spaccia per maturità la fine della farsa e arrivederci, tanto è già ora dei successori, se possibile ancora più vacui, più insopportabili. Anche questi bambocci in lattina spariranno, vanno evaporando senza lasciare eredità, ma purtroppo eredi sì.

La crisi dei Maneskin? Scusate, quale crisi? Su quali basi? Difatti non si capisce e nessuno si prova specificarlo, ad abbozzare una ragione. Crisi artistica no, per carità, musicale meno che meno, non pigliamoci in giro, hanno litigato sull’ultimo capo firmato? Sui tacchi a spillo che il ragazzo Damiano ha sottratto alla… come si chiama? Ah, sì, Victoria, con la C. il trionfo del liberismo post tutto sta in una mezza generazione di mocciosi che parlano come questi, si strusciano come questi e non sanno perché, sanno solo che il loro orizzonte è lo stesso, fare soldi per fare niente sapendo fare niente, ma pochissimi capitano sotto le grinfie del ragionier Agnelli da Abbiategrasso alla conquista del mondo.

Max Del Papa, 21 luglio 2024

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