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I pacifisti come Miss Italia: tifano “pace nel mondo”, ma non dicono come

L’ultimo articolo di Carlo Rovelli è l’emblema della convizione del progressismo internazionale di vivere in un mondo diverso da ciò che è in realtà

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Spesso abbiamo paragonato l’ideologia woke-progressista ad una religione, divenuta ormai molto ingombrante del partito democratico americano. In Europa, crollata l’Unione Sovietica ed il potere della Chiesa, i partiti socialisti e progressisti hanno unito il loro antimodernismo, terzomondismo e antiamericanismo a questa dolciastra dottrina d’oltreoceano, di cui il pacifismo a senso unico è uno dei princìpi cardine. Un riassunto efficace del pacifismo nostrano è stato dato da Carlo Rovelli sul Corriere della Sera il 22 dicembre scorso. Rovelli é senza dubbio uno scienziato autorevole ed un divulgatore apprezzato in tutto il mondo, proprio per questo, ciò che non può non sorprendere un umile lettore, è constatare che le sue affermazioni politiche mancano di un elemento che per un uomo di scienza dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi argomentazione: il dato di realtà.

Rovelli ci elenca il numero dei morti nelle guerre degli ultimi decenni e la cifra delle spese militari odierne che ammontano a 2200 miliardi di dollari. Nulla da obiettare fin qui. Spiega le malefatte della decadente egemonia americana ed il fatto che gli USA abbiano perso tutte le guerre in giro per il mondo dalla fine del secondo conflitto mondiale (si dimentica della la guerra fredda, ma forse non è così importante). Ad un Occidente arrogante ed ipocrita, dominato dagli Stati Uniti, Rovelli antepone la galassia dei BRICS, multipolari e bacino di “grandi democrazie del pianeta, come India, Indonesia e Brasile”. E qui qualcosa comincia scricchiolare.

Se in nome dei diritti, della pace e del valore degli individui critichiamo le contraddizioni della democrazia USA (le armi, le diseguaglianze sociali, le discriminazioni razziali) come possiamo prendere a modello l’India, dotata sì di una cultura millenaria e affascinante, ma dove 200 milioni di Dalit (o “paria”) vivono in una crudele apartheid, dove le spose bambine sono una triste normalità e dove Dehli è nota come una delle capitali mondiali dello stupro? Inoltre, è ancora possibile oggi, in cui abbiamo molti più mezzi di informazione rispetto agli anni ‘70, erigere a modelli di pacifismo i paesi sudamericani, dove gli eserciti nazionali sono stati ripetutamente dispiegati contro le loro stesse popolazioni, dove lo sviluppo é continuamente ostacolato da sanguinose lotte interne tra gruppi criminali che si sostituiscono allo stato (vedi Colombia e Messico) e dove le politiche sciagurate dei coraggiosi oppositori dei gringos hanno ridotto sul lastrico milioni di persone (vedi Argentina e Venezuela)?

L’analisi di Rovelli continua con l’auspicio che l’Italia possa contribuire alla pace nel mondo in virtù del suo “sincero pacifismo culturale”. E qui la retorica sugli italiani brava gente (e conseguente slinguazzata al Papa) è insopportabile. Davvero crediamo alla favola del pacifismo italiano di ispirazione cattolica? Davvero crediamo che la pace in cui viviamo da 80 anni non sia dovuta all’Alleanza Atlantica ma al fatto che siamo diventati “buoni”? Davvero crediamo che, se sostituissimo le basi Nato con campi di fiori e devolvessimo il budget dell’esercito alla ong di Casarini, i grandi paesi mediterranei (in primis Turchia ed Egitto) non sarebbero tentati di espandere la propria egemonia sul vecchio e benestante territorio italiano?

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Rovelli ci mostra un lato chiave del progressismo internazionale, non solo l’anelito verso un ideale irraggiungibile (la pace nel mondo), ma soprattutto la convinzione di vivere in un mondo diverso da ciò che è in realtà. Un mondo dove, senza gli americani cattivi ed i loro accolito europei al seguito, in Russia eleggerebbero a presidente il Dalai Lama, in Israele il primo ministro Moni Ovadia risolverebbe il conflitto con i palestinesi in un batter d’occhio, ed in Iran sostituirebbero la legge coranica con gli editoriali di Massimo Giannini. Questa visione favolistica dell’umanità è in realtà vetusta e velata di razzismo. Perché vive nella convinzione che il mondo non sia altro che un’accozzaglia di selvaggi, e l’Occidente sia l’unico in grado di determinarne la rovina o la salvezza. Come nel mito ottocentesco del “buon selvaggio”, i popoli della terra sono inerti e inconsapevoli, noi soli siamo i responsabili di tutte le loro sciagure, e solo ritirandoci regaleremmo loro un avvenire di pace.

Aderire a questa visione fa sentire subito migliori, perché svuota gli altri delle proprie responsabilità e regala a noi l’ebrezza di essere i dispensatori del bene e del male. Poi ci si sveglia, e si realizza che laddove l’Occidente, con tutte le sue contraddizioni, si ritira in casa propria, il mondo diventa tutt’altro che rose e fiori, e conquiste, scannamenti e proliferazione di armi atomiche (ultime notizie dalla Corea del Nord) divampano con entusiasmo ancora maggiore. Per sfuggire a questa evidenza basta fare come il sindaco comunista Peppone che ne “Il compagno Don Camillo” davanti ai racconti di due fuggiaschi dall’URSS sbotta: “Smettetela di parlare male della vostra Russia, io voglio continuare a credere alla mia!”.

Pietro Molteni, 1 gennaio 2024