I referendum certificano l'(auto)distruzione della politica

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Sul flop dei referendum si è manifestata la convergenza di più fattori: carenza informativa, poteri mediatici impegnati ad eclissare i quesiti e agenda politica egemonizzata dalla guerra russo-ucraina. Tuttavia, se la politica avesse fatto il suo mestiere avrebbe potuto imporre l’attenzione sullo strumento di democrazia diretta. Più che di complotto parlerei di autolesionismo di una classe politica che negli ultimi anni, pur di compiacere ai suoi demonizzatori, si è sottoposta volontariamente alla fustigazione con pulsioni auto-distruttive.

5Stelle, sabotatori dei referendum

I Cinquestelle procedono nella loro metamorfosi, abiurando a quei precetti che ne avevano plasmato il gesto politico. Da fautori della democrazia diretta si sono convertiti nei sabotatori dei referendum, come fossero immessi in una spirale mutante abdicativa delle loro origini dogmatiche. Dopo aver promosso il taglio dei parlamentari, cavalcando l’onda antipolitica a cui tutti i partiti si sono accodati, con l’effetto di aver limitato la rappresentanza democratica in un quadro di deterioramento della partecipazione elettorale, si sono accaniti contro il dispositivo referendario che incorpora l’immediatezza della tanto declamata sovranità popolare. Il combinato disposto del trend astensionistico con la riduzione dei parlamentari genera conseguenze compressive sulla democrazia rappresentativa nella passiva accettazione dei partiti. Questi, intimoriti dalla pressione qualunquista dei Cinquestelle, sembrano ostaggio della iper-semplificazione dei ruttatori seriali.

Silenzio mediatico

Tornando alla consultazione referendaria, il “silenziamento” mediatico sul referendum ha concorso a boicottare la spinta mobilitante, ma il suo fallimento non è decifrabile soltanto dalla connivenza dei gruppi editoriali ostili ai quesiti, perché l’onestà intellettuale suggerisce di valutare anche la scarsa capacità politica di strutturare un dibattito ampio sul tema. Non è ammissibile, infatti, una tale marginalità del tema considerando la quota di quadro politico, piuttosto consistente se non maggioritaria, favorevole al sì. Per disinnescare l’apatia partecipativa e la diserzione delle urne occorre mobilitare emozioni positive sulla necessità di riformare l’ordinamento giudiziario a cui i cittadini sono sottoposti, mentre se ogni questione viene trasformata in uno spettacolo di wrestling, dove si simulano le lotte per replicare il tanto vituperato teatrino della politica, il rischio è di essere sopraffatti da una condotta rinunciataria come la bassa affluenza (circa il 20%) per i referendum.

La fine della politica

La politica dovrebbe sterilizzare la radice della disaffezione partecipativa, anziché fertilizzare il campo in cui attecchisce la rinuncia alla partecipazione politica. Le urne vuote hanno emesso un “assordante” silenzio a cui occorre accostare l’orecchio dell’ascolto per ricalibrare un impegno più percepibile come servizio alla collettività, evitando che il declino partecipativo approfondisca il solco fra Paese legale e Paese reale che precipiterebbe il sistema istituzionale in un rito autoreferenziale. Se la democrazia diventa una scenografia disabitata o una esibizione recitativa i suoi postulati sono destinati ad esaurire la funzione di stabilità con rischi incalcolabili sulla tenuta dell’assetto democratico. La politica si svegli dal torpore e riassuma il ruolo di catalizzatore dell’interesse pubblico.

Andrea Amata, 15 giugno 2022

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