Correva l’anno 1986 e l’URSS, la potenza invincibile sfidava ancora le leggi del mondo a Chernobyl. È là che andò in scena il prequel – mistificato a modo nel mentre e dopo – del destino di un popolo che incontra il comunismo. D’altronde cosa poteva capitare con un paio di esplosioni in una centrale nucleare capaci di scoperchiare il tetto e avvelenare l’aria con una radioattività 200 volte superiore alle bombe di Hiroshima e Nagasaki? Il regime comunista ha sempre ragione, non sbaglia, e se sbaglia sotterra.
Così, in Ucraina il regime comunista dimostrò come non si può sbagliare o avere torto sotto la falce e il martello. Alla centrale Lenin i reattori erano gli RBMK-1000, tendenzialmente instabili erano pericolosi perché privi di edifici di contenimento. Strutture obbligatorie in Occidente che sono una barriera fra il reattore e il mondo circostante. A Chernobyl il reattore era completamente “esposto”. E come se non bastasse, allo scopo di produrre anche plutonio ad uso militare – che con l’uranio arricchito serve a produrre testate nucleari -, era stato abbassato il livello della sicurezza.
L’URSS, che aveva costruito la più potente e perfetta pentola a pressione pronta all’omicidio colposo, la affidò a ingegneri meccanici e non a fisici nucleari.
Per un ordine politico preciso coperto da segreto di Stato anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica – e che in linea di massima altro non era se non l’ennesimo tentativo di dimostrazione di potenza – venne avviato l’esperimento. Ma fallì. Subito. Le autorità non diedero alcun allarme per “evitare il panico”. Il vento soffiava verso Ovest e verso Nord, così la Bielorussia subì i danni più gravi per prima. Il giorno dopo, il 27 aprile, una centrale nucleare in Svezia costatò un’impennata di radiazioni e diffuse l’allarme al resto d’Europa. Le autorità sovietiche, invece, ancora tacevano con ostentazione. Il 27 aprile stava per finire quando la città di Pryp’jat venne fatta evacuare, ma solo con la scusa di una misura temporanea.
Chi c’è stato racconta che da oltre trent’anni, Pryp’jat, in Ucraina occidentale, a solit tre chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl, è ancora una città fantasma. Tutto è rimasto come allora, nel momento esatto in cui è scattato il piano di evacuazione generale: piatti a tavola e panni stesi, sedie vuote e libri rimasti a quella pagina da leggere.
Il primo passo fu minimizzare, poi teorizzare. Come non potevano esistere, infatti, in una nazione perfetta i ladri o i serial killer – sintomi del degenerato sistema capitalistico – in Unione Sovietica un disastro del genere non poteva succedere. Fu trovato un colpevole e la bugia si fece verità. Perché il problema con le bugie comuniste è che ne furono raccontate così tante, che la verità, allora come oggi, è diventata difficile da riconoscere. È certo, però, che gli strascichi di quella radioattività sono durati oltre vent’anni. “Il disastro di Chernobyl non derivò da un attacco militare, né da un atto terroristico. Fu un errore della dirigenza sovietica, peggiorato dalle bugie che il Partito comunista raccontò alla popolazione sulla gravità dell’accaduto”, racconta oggi Yuriy Scherbak, ex ministro dell’ambiente in Ucraina.
Trent’anni dopo arriva il Coronavirus. Il misterioso virus cinese che si sta diffondendo così velocemente su scala planetaria, da diventare un’epidemia grave. Non c’interessa decretare da queste pagine se ha lo stesso tasso di mortalità o superiore a quello di una semplice influenza stagionale, se è come la Spagnola o peggio o decisamente lontano da una febbre che provocò circa 40 milioni di morti. Non ne abbiamo le competenze. D’altronde non sappiamo come si svilupperà e in cosa muterà – gli esperti litigano nel caos dell’ideologia perenne. Non sappiamo come sia nato il virus, non sappiamo il numero reale dei malati e dei morti in Cina. Perché la verità è che come a Chernobyl, il Partito Comunista cinese ha giocato a sotterrare tutto da quasi tre mesi a questa parte. Per settimane, dopo i primi casi di coronavirus segnalati, hanno preteso ostentatamente che non esistesse. Poi hanno raccontato che si era originato in un mercato all’aperto, successivamente altre fonti hanno ipotizzato che il virus fosse fuggito dal laboratorio di armi batteriologiche dell’Esercito di Liberazione Popolare – a pochi chilometri dall’epicentro dell’epidemia.
In ogni caso, la prima ondata di casi, in dicembre, non è stata riportata. E anche quando il numero di contagiati è diventato troppo grande per mentire ancora, all’inizio di gennaio, i funzionari del regime hanno continuato a minimizzare sia con la loro gente che con la comunità internazionale.
Dal momento che la gente di Wuhan non aveva ricevuto alcuna informazione o ordinanza meramente a scopo precauzionale, ha continuato a contrarre e spargere il virus per settimane. Quando è diventata un’epidemia a Wuhan, è iniziato il Capodanno cinese. Ogni anno, inizia in Cina la più grande migrazione del pianeta. Ecco, quindi l’incubo epidemiologico. Ma quando i funzionari cinesi davano inizio alla più grande quarantena della storia umana, era già troppo tardi, come scrive Steven Mosher – antropologo statunitense, presidente del Population Research Institute (il primo che poté condurre ricerche sul campo in Cina dal 1979).
I video delle cosiddette talpe che continuano ad arrivare dalla Cina non raccontano di una situazione sotto controllo dalle strade deserte alla gente accasciata sui marciapiedi fino alla disinfestazione di massa. Anche se, persino per questi filmati, non si sa né a quando risalgono, né in quale città sono stati girati. Resta il fatto che con l’epidemia diffusa a livello planetario le autorità di Pechino continuano a mentire. E nonostante la censura poliziesca che al 28 gennaio, come riporta ancora Mosher, secondo le direttive emesse dal Ministero della Sicurezza Pubblica che imponevano la quarantena e per mantenere l’ordine sociale promettevano di punire “duramente” chiunque diffondesse notizie dal vivo o online sull’epidemia, le brutte notizie sono venute fuori lo stesso.