I valori spesso fanno pensare ai gusti sui quali non est disputandum. Si hanno sensibilità etiche diverse che portano a reagire in modo molto differente agli stessi fenomeni, anche quando, in teoria, si ritiene di condividere una buona dose di idealità civili. Un autorevole filosofo del diritto del nostro tempo, Francesco D’Agostino, nell’articolo Gli equivoci assimilazionisti. Giusto antirazzismo e ricchezza umana (Avvenire 8 agosto u.s.), scrive: “Non esiste nella cinematografia più vivace e attiva del mondo d‘ oggi, quella statunitense, nel cast della quale non vengano sapientemente affiancati agli attori di caratteristica identità anglosassone, o comunque europea, altri di etnie minoritarie, ma molto radicate nella quotidianità americana, quali quelle afroamericane, latine, asiatiche ed altre ancora.|..| In base all’ideologia oggi dominante, le razze non esistono e non devono avere alcun ruolo sociale, ogni ’ parte’ nella trama di un film, dovrebbe in linea di principio poter essere assegnata a un attore indipendentemente dal colore della sua pelle”. È proprio vero: tot capita, tot sententiae!
Ogni volta che vedo sullo schermo un prelato, un agente dell’Fbi, un magistrato, un docente universitario, un columnist, un generale, un attore come Morgan Freeman tiro un sospiro di sollievo: afro-americani, latino- americani, asiatici, pellerossa, hanno finalmente ottenuto l’eguaglianza dei diritti, l’accesso a tutti gli impieghi: l’appartenenza etnica è diventata una “qualità secondaria”. Che ci siano giudici coloured alla Corte Suprema, come Thurgood Marshall e Clarence Thomas che siedono sullo stesso scranno di John Marshall o di Oliver Wendel Holmes, mi fa sentire tutta la grandezza della civiltà nordamericana e mi ricorda i grandi imperatori provenienti dall’Hispania boetica, come Traiano e Adriano, che, per Edward Gibbon, furono i più grandi difensori di Roma, delle sue leggi, delle sue istituzioni.
Fu un figlio della Gallia Narbonese, Rutilio Namaziano, a elevare uno dei più commossi inni a Roma fecisti patriam diversis gentibus unam, proprio quando il destino dell’impero era segnato. Il fatto è che, nel caso di Roma come degli States, ci troviamo dinanzi a una comunità politica, che si richiama a valori alti e irriducibili, a ideali che le assicurano un primato spirituale tra le genti, a un progetto umano – il virgiliano Tu regere imperio populos, Romane, memento o il ‘ credo americano’ su cui ha scritto, tra gli altri, pagine fondamentali Samuel P. Huntington. Le razze, di cui D’Agostino constata la scomparsa nei film americani, non scompaiono in virtù di un appiattimento generale su un “antirazzismo semplicistico” che assiste al trionfo di un “monoculturalismo di matrice euro- anglosassone” ma in virtù di qualcosa di più elevato che le trascende e che non ha connotazioni etniche. «Sul piano culturale – si legge nell’articolo, si è ormai affermata l’idea che non solo i gruppi umani siano tutti identici e intercambiabili (il che non è vero) ma che lo siano anche i singoli individui».
Può essere vero ma chiediamoci che cosa porta all’omologazione delle «innumerevoli identità etniche minoritarie»? A mio avviso la spiegazione sta nella marcia inarrestabile dei tre universalismi: economico (il mercato), etico (il retaggio cristiano- illuministico) giuridico (i diritti umani che non conoscono frontiere), che hanno ridotto i rapporti umani a “scambi” che prescin-dono radicalmente dalle appartenenze (nazionali o razziali). Nella catena tra la tribù e l’Umanità è saltato l’anello intermedio dello Stato moderno che, nella sua forma più compiuta, era diventato “Stato nazionale” (non è casuale che gli Usa si servano del termine Nation per designare il popolo americano, nel suo complesso). Non è questa la sede per analizzare le cause storiche, politiche, culturali che hanno portato alla sua decadenza: certo è che da qui parte la spinta possente all’omologazione.
È un trend al quale cercano di opporsi i populisti al governo nei Paesi dell’Europa Orientale ignorando, però, che lo Stato nazionale, come ha scritto l’aroniano Pierre Manent, era un ponte tra la tribù e l’Umanità e che la sua legittimazione spirituale stava nella capacità di equilibrare il particolare e l’universale, la ragion di stato e il “sacro egoismo” dei popoli con le ragioni dell’etica kantiana e della scienza galileiana.
«Riteniamo doveroso accogliere lo “straniero”, ma pretendiamo che non solo parli anche la nostra lingua e abbandoni eventuali pratiche umanamente inaccettabili (pensiamo, ad esempio, all’infibulazione) ma che adotti anche il nostro abbigliamento, che faccia propri tutti i nostri costumi, che adotti i nostri ritmi e le nostre modalità lavorative e che moduli gli usi religiosi ed alimentari nella nostra maniera». Ho l’impressione che, in realtà, per molti studiosi cattolici (D’Agostino è stato presidente dei giuristi cattolici) lo Stato sia uno strumento, un mero contenitore istituzionale dei più diversi gruppi umani e che sia la “società civile” – nella varietà dei suoi componenti e dei suoi valori- ciò che veramente dovrebbe importare all’uomo adulto del XXI secolo.