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I “vigilanti” di Facebook? Tutti di sinistra

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di Daniele Dell’Orco

Nei giorni seguenti al ban permanente dell’account di Donald Trump su Twitter si è riacceso il dibattito sulla tutela della libertà di espressione sui social. Non esistendo leggi chiare in materia, i colossi del web fanno leva sulle “condizioni d’uso” vagliate da ogni utente (che lo sappia o no) al momento dell’iscrizione per consentire o rimuovere i contenuti. Ciò conferisce un potere virtualmente infinito ai “moderatori”, coloro i quali, di mestiere, controllano i singoli post e decidono cosa sia lecito o illecito.

Un ruolo, si badi, di grande responsabilità, vista la quantità di porcherie che invade il web e che viene portata in dote da miliardi di utenti. Ma parliamo di nefandezze come incitamento alla violenza, alla pedopornografia, al terrorismo etc, non certo di reati d’opinione.

La domanda che sorge spontanea è: chi controlla i controllori? Questi moderatori sono persone comuni, che hanno inclinazioni ideologiche, background, simpatie politiche. E siccome i famosi “standard della community” sono spesso molto vaghi, i moderatori sono praticamente liberi di censurare ciò che vogliono. Talvolta sono organici alle stesse aziende che gestiscono i social, talaltra lavorano per soggetti privati terzi a cui i colossi affidano una parte del lavoro (via via sempre più abnorme). Questi soggetti privati, allo stesso modo, come Arvato, Cpl Recruitment, BCforward, Accenture (quasi sempre internazionali), sono composti da personale che può garantire o non garantire il rispetto della terzietà.

Possono, in buona sostanza, essere in malafede, o incompetenti, o distratti (studi recenti hanno dimostrato che l’attenzione riservata all’analisi di ogni singolo post non supera in media i 10 secondi). A coadiuvarli ci sono gli algoritmi (che di norma penalizzano i post “in attesa di giudizio”, dall’inizio della pandemia possono anche censurare direttamente i contenuti), a loro volta alimentati dalle segnalazioni degli utenti (più che mai tendenziose, o arbitrarie, o dolose).

E allora, la seconda domanda che sorge spontanea è: il singolo, bannato o censurato magari ingiustamente, come si può difendere? Nel caso di Facebook esiste dal 2019 un organo chiamato Oversight Board, un Comitato per il controllo dei contenuti. Si tratta di una sorta di Corte Suprema formata da 20 super esperti globali di difesa dei diritti, libertà d’espressione, comunicazione digitale. I membri hanno un mandato triennale e devono svolgere il compito di prendere decisioni definitive e vincolanti sui casi di ricorso presentati dagli utenti che ritengono di aver subito un’ingiustizia, e stabiliscono (anche se in disaccordo con la linea aziendale) quali contenuti potranno essere consentiti o rimossi da Facebook e Instagram ispirandosi alle leggi in materia di tutela della libertà di espressione e dei diritti umani.

L’Oversight Board, insomma, fa giurisprudenza. Grazie a questo organo la trasparenza dovrebbe essere garantita. Ma, a ben guardare, proprio super super super partes non sono. Tra i nomi più conosciuti ci sono ad esempio:

1. Alan Rusbridger, ex storico direttore del Guardian (testata liberal);

2. Afia Asantewaa Asare-Kyei, della Open Society Initiative for West Africa (sì, “quella” Open Society);

3. Jamal Green, costituzionalista e autore del libro How Rights went wrong, che parte dall’assunto popperiano che gli americani siano finiti “fuori strada” nella percezione di cosa siano i loro “diritti”;

4. Helle Thorning-Schmidt, ex primo ministro danese socialdemocratico;

5. Endy Bayuni, nel board di varie Ong;

6. Pamela Karlan, divenuta famosa per aver guidato la richiesta di impeachment contro Trump (una delle) sostenendo che avesse “sollecitato l’interferenza di un governo straniero, quello dell’Ucraina, per trarre vantaggio nella sua rielezione” e per aver fatto una battuta sul figlio, Barron, durante una delle sue audizioni;

7. Nighat Dad, ultrafemminista pakistana.

Nota a margine: non ci sono italiani.

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