Solo il grandissimo Indro Montanelli si poteva permettere di scrivere a guerra ancora calda, nel 1946, un incredibile pamphlet titolato Il buonuomo Mussolini. Il fondatore del Giornale, non era ancora il venerato mostro sacro della Lettera 22 allora, e immagina di ricevere da un prete di campagna il testamento di Mussolini. Un artifizio retorico che permetterà a Montanelli, attraverso l’io narrante del Duce morente, di raccontare alcune verità che altrimenti sarebbe stato complicato rintracciare in quella particolare situazione storica.
«Come mi uccideranno i milanesi? – Si chiede il Duce-Montanelli all’inizio del finto diario – Forse per linciaggio, forse per lapidazione. Ma, certo a furor di popolo. Avrei una certa difficoltà a immaginare il mio cadavere sbranato dalla folla in una piazza di Napoli; non ne ho nessuna ad immaginare tutto questo in una piazza di Milano: la città del crucifige non può che essere quella dell’osanna». Inoltre «mi attribuiranno tutti i vizi con la stessa grossolana totalitarietà con cui, nel ventennio, mi si attribuirono tutte le virtù».
Straordinario il surreale discorso con il Re per l’entrata in guerra a fianco del Nazisti. Un paradosso nel paradosso. L’Indro-Mussolini sa che la guerra al fianco dei nazisti è persa e che sarebbe molto meglio essere prima neutrali e poi essere costretti a passare con gli inglesi. In questo modo i tedeschi, che già sono condannati a perdere la guerra, dice Mussolini, la perderebbero senza noi accanto. Ma dice il Duce dobbiamo entrare in guerra comunque al loro fianco. «Maestà l’Italia non è grande quando vince; l’Italia è grande quando perde… Ecco le due Italie del progetto Maestà: quella trionfante e miserabile, quella disfatta e grande. Scelga Lei. La prima assicurerà a Lei il trono, a me il plauso dei contemporanei: ci toglierà il consenso della Storia. La seconda ci assicurerà questo consenso, togliendo il Trono a Lei e a me la vita».
Montanelli è fulminante: nel diario riesce a far dire la seguente cosa a Mussolini: «Il mio narcisismo è molto grande, giunge sino alla gigioneria. Io sono l’unico uomo al mondo che è riuscito a vedere ogni giorno, per venti anni, la propria fotografia stampata su tutti i giornali di Italia e d’Europa, senza prendersi in uggia». E quella lite con il Sovrano perché Mussolini aveva osato farsi nominare dalle Camere, Maresciallo d’Italia: «Maestà, le masse di tengono con tre soli espedienti: i carabinieri, la musica in piazza e i pennacchi. Io avevo bisogno di quel pennacchio perché non è me che gli italiani seguono, sono i miei pennacchi».
Insomma si tratta di un ritratto dell’italiano, della dittatura, dell’antifascismo di straordinaria attualità.
Nicola Porro, Il Giornale 16 maggio 2021