Sconcertante ma non sorprendente. Negli ultimi mesi si è parlato molto della disforia di genere tra i minori, in particolare per il ruolo dei bloccanti della pubertà, somministrati in vista dell’intervento chirurgico. Ma anche a causa dei pochi dati a disposizione sulle possibili controindicazioni, anche i Paesi più progressisti hanno fatto un passo indietro, sospendendo farmaci come la triptorelina. Precauzione corretta, considerando le possibili ripercussioni di certi trattamenti pesanti. E ora c’è di più. Come riportato dal New York Times, la dottoressa Johanna Olson-Kennedy ha raccontato di non aver voluto pubblicare i risultati di uno studio scientifico che ha dimostrato come i bloccanti della pubertà non migliorino la salute mentale dei bambini con disforia di genere. Il motivo? La possibile strumentalizzazione politica.
La dottoressa in questione è una sostenitrice dei trattamenti di genere per gli adolescenti, ma ha rivelato che i risultati della sua ricerca – costata 10 milioni di dollari e finanziata con fondi pubblici – non hanno confermato le aspettative della comunità Lgbt e più in generale di quella sinistra imbevuta di ideologia. Lo studio è iniziato nel 2015 come parte di un più ampio progetto federale sui giovani transgender: sono stati reclutati 95 bambini a cui sono stati somministrati i bloccanti della pubertà, che impediscono i cambiamenti fisici permanenti, come il seno o una voce più profonda, che potrebbero esacerbare il loro disagio di genere,
I ricercatori hanno seguito i bambini per due anni per vedere se i trattamenti miglioravano la loro salute mentale, sulla scia di quanto sostenuto da una ricerca olandese. Ma come anticipato lo studio non ha riscontrato una tendenza simile, anzi: i bloccanti della pubertà non hanno portato a miglioramenti della salute mentale, molto probabilmente perché i bambini stavano già bene quando è iniziato lo studio. “Erano in ottima forma quando sono arrivati e sono in ottima forma dopo due anni”, la sottolineatura della dottoressa Olson-Kennedy.
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Nei nove anni trascorsi da quando lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health, il team non ha pubblicato i dati. Alla domanda sul perché, ha detto che i risultati potrebbero alimentare il tipo di attacchi politici che hanno portato al divieto dei trattamenti di genere per i giovani in più di venti stati americani. “Non voglio che il nostro lavoro venga utilizzato come arma”, la sua conferma: “Deve essere esattamente puntuale, chiaro e conciso. E questo richiede tempo”. Ma molti altri esperti hanno idee diverse, preoccupati dalla mancata comunicazione dei dati. Il ragionamento è chiaro: lo studio avrebbe potuto avere implicazioni immediate per i casi di disforia di genere.
L’obiettivo della ricerca era dimostrare che con la somministrazione di bloccanti della pubertà i ragazzini avrebbero mostrato “sintomi ridotti di depressione, ansia, sintomi di trauma, autolesionismo e suicidalità, e una maggiore autostima e qualità della vita nel tempo”. Dopo due anni, le ipotesi non si sono concretizzate. Insomma, è stato confermato quanto sostenuto dalla dottoressa Hillary Cass nel grande report britannico che ha tracciato un solco in materia. Il suo rapporto ha trovato prove deboli per i bloccanti della pubertà e ha notato alcuni rischi, tra cui ritardi nella crescita ossea e perdita di fertilità in alcuni pazienti. Risultati tali da spingere l’NHS a smettere di prescrivere i farmaci al di fuori di una nuova sperimentazione clinica. Una mossa di buonsenso, saggia, lontana dall’integralismo talebano di chi è disposto a tutto pur di accontentare questa o quella minoranza, a costo di giocare sulla pelle dei bambini.
Franco Lodige, 25 ottobre 2024
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