Non sappiamo come andrà a finire la storia che ha per protagonista l’avvocato siciliano Pietro Amara: se si accerteranno delle responsabilità o se tutto si sgonfierà come un pallone bucato. E ovviamente non sta a noi pronunciarci, sia perché non siamo giudici e poco sappiamo di pandette sia perché i contorni della vicenda sono tutt’altro che chiari. Un giudizio politico, o addirittura morale, è però senza dubbio possibile già darlo. Con la constatazione che i fatti che si possono evidenziare sono uno spaccato di questa Italia allo scatafascio, dei mali atavici della sua giustizia e della politica (e dell’informazione che segue allineata). Mali ormai incancrenitisi. E di cui la sinistra porta quasi per intero la responsabilità. Non abbiamo mai creduto alla retorica di uno Stato “normale”, ma forse in uno Stato e in una società minimamente decenti certe incongruenze non sarebbero state possibili. Proviamo ad elencarle.
Le incongruenze della magistratura
1. Il suddetto Amara, non nuovo a denunce di ogni tipo (e spesso sembrerebbe alquanto megalomani, ha consegnato al pm milanese Paolo Storari, nel corso di quattro interrogatori nell’ultimo scorcio del 2019, una serie di dichiarazioni (e prove?) che avrebbero delineato l’esistenza di una specie di associazione segreta di uomini di potere tipo la vecchia loggia massonica (deviata) P2. Di quest’associazione, chiamata “Ungheria” (non si capisce perché ma Orbàn questa volta non c’entra), avrebbe fatto parte l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Vero o più probabilmente falso che sia (vista la scarsa attendibilità dell’accusatore), dovere della procura sarebbe stato quello di aprire l’inchiesta. Come d’altronde, è stato fatto nel caso di altre denunce di Amara (compresa quella finita in un nonnulla relativa ai fondi nigeriani dell’ENI). E come soprattutto imporrebbe il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sempre sbandierato come un vessillo giustificatorio da certa magistratura in casi dubbi coinvolgenti soprattutto i politici. Ma probabilmente il principio vale per gli amici e non per i nemici politici, e né si tratta di Ragion di Stato (o etica della responsabilità) visto che a Silvio Berlusconi fu mandato un avviso di garanzia nel pieno di una riunione G8.
2. Visto che i suoi capi non vogliono aprire l’inchiesta, Storari non si dà per sconfitto e, non si capisce a che titolo, passa il dossier a Pier Camillo Davigo, il potente magistrato divenuto l’emblema del giustizialismo italiano, capo di una delle più potenti correnti del Consiglio superiore della Magistratura. Davigo si tiene ben stretto il dossier sul tavolo, non rendendolo pubblico ma rendendo edotto del suo contenuto nientemeno che il Presidente della Repubblica. La segreteria di Mattarella ha smentito la circostanza, e ovviamente non si può non dar credito al capo dello Stato. Davigo non ne esce bene però anche perché, ad un certo punto, la sua segretaria decide di inviare i documenti che attestano il fattaccio ai due giornali paladini della lotta alla corruzione e sempre sensibili, uso un eufemismo, alle ragioni della magistratura più politicizzata: La Repubblica e Il Fatto Quotidiano. Non è dato sapere se ha agito da sola, o su richiesta del suo capo, la signora Contrafatto, come stranamente si chiama questa segretaria (e i nomi in questa vicenda sembrano essere stati concepiti da una mente beffarda: anche quello di Amara, che è a ben vedere un Palamara venuto dopo l’originario, come indica il prefisso “pal”)
3. Ora cosa ci si aspetterebbe dal Fatto e da Repubblica se non che, fatta una rapida verifica, pubblichino i documenti di quello che a questo punto sarebbe stato uno scoop giornalistico? D’altronde, così è sempre avvenuto in passato per questi due giornali, che su questo genere di scoop hanno campato per anni ed anni. E così avrebbe imposto la deontologia professionale. Questa volta non accade nulla di tutto questo e i due giornali investono la procura della questione, che è venuta alla luce quasi per caso solo in questi ultimi giorni.