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Il centrodestra è unito perché ha un popolo

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La notizia è che il destra-centro ieri ha confermato di essere una coalizione, “dettata” da un blocco sociale maggioritario nel tessuto nazionale. Quella giallo-fucsia, invece, si dimostra solo un’unione fra minoranze che rispondono a due popoli diversi e non sovrapponibili. La prova? Arriva dagli accordi ufficializzati per la sfida delle Regionali di settembre. Da una parte Pd e 5 Stelle che non riescono praticamente a declinare in alcun territorio chiamato al voto l’esperienza (o disavventura) del governo nazionale. Dall’altra, invece, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia che hanno ufficializzato unità di intenti e candidature unitarie in tutte le regioni dove si andrà al voto.

Al di là degli scenari destinati ad aprirsi nel caso di un ulteriore exploit dei partiti di opposizione (o del rafforzamento del governo in caso contrario), il dato emerso dalla nota congiunta di Salvini, Meloni e Berlusconi risponde a un dispositivo plebiscitario ineludibile dalla volontà degli stessi leader. Tradotto: l’elettorato, proprio stavolta, non avrebbe perdonato alcuna divisione ai leader del destra-centro. A maggior ragione se figlia di dinamiche giudicate incomprensibili, alla luce di un governo animato da ex nemici uniti soltanto dal timore delle urne: perché lì – lo indicano tutti i sondaggi – non ci sarebbe diga (o scusa) sufficiente per fermare la vittoria dei sovranisti.

Eppure – questo hanno restituito la cronaca e i retroscena – si è rischiato in queste settimane di non trovare la quadra nelle Marche, in Puglia e in Campania soprattutto (in Veneto, Liguria e Toscana è stato estremamente più semplice). Con lo spettro di una frammentazione che avrebbe avuto inevitabili ripercussioni in chiave politica: di fatto l’implosione di un progetto che gli italiani da due anni continuano a premiare in ogni occasione che conta. A tutto vantaggio, stavolta, dello status quo targato Pd-5 Stelle.

Uno scenario in sé paradossale che, unito ai disastri scaturiti dal “rinviismo” di Giuseppe Conte che hanno aperto la porta all’eventualità che il Mes sia l’unica linea di credito disponibile, poteva fare letteralmente “scopa” vista la volontà di Forza Italia di rappresentare la forza di opposizione con il “link attivo” con i popolari al governo di Bruxelles e quella della Lega di innestarsi al Sud dopo la sconfitta dolorosa (ma fin troppo amplificata) in Emilia-Romagna.

Alla fine, come abbiamo raccontato anche su queste colonne, ha prevalso la linea del buonsenso, coltivata – dalla stagione dei governi tecnici a quella dell’ogm giallo-verde – dalla “cerniera” della coalizione: Giorgia Meloni. Una condotta e una richiesta basate su un assunto magari non così “pop” ma sedimentato di certo nel tratto antropologico dell’elettorato: l’unità della coalizione, l’idiosincrasia per i ribaltoni e gli inciuci. Tratto che per non diventare una semplice enunciazione di principio non può che basarsi – come ha ripetuto la leader di FdI – sul principio latino del pacta sunt servanda. Patti che Salvini ha scelto alla fine di rispettare ricevendo a sua volta il riconoscimento per un’adeguata rappresentanza della Lega nelle sfide che riguarderanno tante città capoluogo, a partire da Reggio Calabria.

Il combinato disposto fra la precisa richiesta di rappresentanza che continua ad arrivare dal “basso” e la responsabilità di tradurre ciò in rappresentazione a cui è chiamata l’élite “nazionale” è riuscito a disinnescare ciò che il deep State sta cercando con tutte le sue armi di persuasione di ottenere. Una pressione perniciosa – coadiuvata anche dalle “sirene” di Giuseppe Conte nei confronti di Forza Italia o dagli analisti che dilatano le frizioni fisiologiche tra i due “quarantenni” sovranisti – che continua a “fantasticare” nei network ufficiali (o presunti tali) il perimetro di una destra “buona” perché ancillare alle necessità di sopravvivenza del governo più anti-sociale e allo stesso tempo anti-sviluppista che si potesse immaginare.

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