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Follie Usa: studio sui cani omosex e onanismo come stupro

Si chiamano James Lindsay, Helen Pluckrose, Peter Boghossian. Sono tre ricercatori il cui clamoroso “scherzo” ha messo in imbarazzo l’università made in Usa. I tre si sono messi a scrivere dei finti paper scientifici, dalle argomentazioni ridicole, e li hanno inviati ad altrettante riviste accademiche di studi sociali, identitari e “gender studies”.

Scopo della messinscena era di dimostrare come questo settore dell’accademia sia ormai così ideologizzato da aver perso qualunque criterio di scientificità. E ci sono perfettamente riusciti.

L’elenco dei finti paper proposti dal trio è esilarante (se non ci fosse da piangere).

In uno si attacca il bodybulding in quanto “discriminatorio contro i grassi” (fat exclusionary) e si argomenta in favore dell’adozione di un termine più inclusivo: “Fat bodybulding”.

In un altro si afferma che un uomo che pratichi l’autostimolazione (si masturbi) pensando ad una conoscente, sia paragonabile ad uno stupro se non ha il consenso esplicito di quest’ultima. Una forma di “oggettificazione metasessuale” della donna, ovviamente.

Che dire poi del fondamentale studio “Sulla Cultura dello Stupro nei parchi dei cani” (ora ritirato).

L’autore (il trio ha sempre usato false identità) in un anno di osservazioni serrate di un parco per cani di Portland, descrive l’opprimente ambiente di prevaricazione sessuale a cui sono esposti i cani femmina. Si dilunga poi sulla discriminazione subita dai cani omosessuali per colpa del pregiudizio dei loro padroni. Si dispiace, infine,  che la sua prospettiva “antropocentrica” impedisca “di valutare adeguatamente il grado di consenso” degli animali.

Questo ridicolo finto paper viene pubblicato senza problemi. O meglio, un problema c’è. Un revisore avanza la seguente critica: come mai, ai soggetti umani descritti nell’articolo, è stato garantito l’anonimato, mentre l’autore non si fa problemi a “intrudere negli spazi intimi degli animali per esaminare e registrare i loro genitali”?.

L’articolo era finto, la risposta del revisore purtroppo no.

Un altro paper, proposto alla rivista scientifica di filosofia femminista Hypatia, propone un nuovo metodo di insegnamento per far “empatizzare” gli studenti bianchi con il clima di oppressione quotidianamente subito dalle minoranze. In pratica, a chi è bianco “verrà impedito di esprimersi in classe ed interrotto ogni volta che prova a parlare”. Per rendere più completa l’esperienza, i bianchi verranno invitati a “sedersi per terra” e “ad indossare catene su spalle, polsi e caviglie per la durata della lezione” (nel testo, però, si specifica “catene leggere”).

Questo paper, almeno, è stato respinto. Sentiamo però con quali motivazioni. Invece di denunciare il tutto alle autorità, i revisori di Hypatia rispondono: “Mi piace molto questo progetto”, bisogna però trovare un modo per far “sentire gli studenti privilegiati a disagio in modalità umilianti ed efficaci” ma non così a disagio “da provocare una reazione opposta”. Cioè, presumo, mandare a quel paese l’insegnante e tutti gli altri studenti non-privilegiati.

Ricevono, invece, luce verde un saggio tratto da un capitolo del Mein Kampf di Hitler ma leggermente rifraseggiato in modo da apparire femminista e un’altro che propone di aiutare i maschi etero a combattere l’omofobia tramite l’uso di sex toy anali, esplicitamente titolato: “Going in Through the Back Door” (“Entrando dal retro”).

La burla sarebbe andata avanti ancora per molto se non fosse stato per le indagini di un giornalista del Wall Street Journal. I primi di ottobre, Lindsay e gli altri vengono allo scoperto, pubblicando un video confessione su Youtube. Dichiarano che il loro obiettivo era di dimostrare quanto la “follia identitaria” e l’attivismo militante stiano minando la credibilità della ricerca. Perché, ed è il vero punto, i finti saggi ricalcano, estremizzandoli solo di poco, i concetti e le teorie ormai diffusissimi negli studi sociologico-identitari delle università americane.

Questi finti articoli, privi di metodologia scientifica, sono riusciti a filtrare indenni attraverso i controlli della peer review per un semplice ed unico motivo: dicevano ciò che i revisori volevano sentirsi dire.

Stefano Varanelli, ottobre 2018