Sta per giungere al termine la Seconda Repubblica, avviata nel 1993-94 sulle macerie di Mani Pulite, e con essa evapora anche il suo tratto principale: la demonizzazione dell’avversario, visto non come un soggetto politico che sostiene idee diverse, ma come un corpo estraneo che agisce ai limiti della legalità – anzi spesso oltre – e mette in pericolo la democrazia. Per un quarto di secolo Berlusconi è rappresentato come una macchia e una minaccia per la Repubblica, poi arriva il turno di Salvini e, quando lascia il Pd, anche Renzi conosce assaggi del trattamento.
Oggi, mentre tramonta una legislatura che ha visto tre governi molto diversi fra loro ma fondati tutti su maggioranze acrobatiche mai neppure accennate in campagna elettorale e perdura una gravissima emergenza sanitaria contrastata, almeno fino a inizio 2021, con azioni costrittive e poco efficaci, la demonizzazione è un incongruo residuo fossile: come osserva Angelo Panebianco sul Corriere del 12 maggio, è finito il contesto che la giustificava e Berlusconi diventa un potenziale alleato della sinistra (maggioranza Ursula).
Berlusconismo e anti-berlusconismo
Tuttavia Panebianco forse edulcora la realtà: la demonizzazione gli appare infatti un’attitudine condivisa, bipartisan, quasi una caratteristica indelebile del sistema politico nato nel 1994 con Berlusconi che reagisce agli attacchi agitando il pericolo comunista. Sembra però difficile negare una differenza di fondo: Berlusconi fa un discorso storico-politico indicando la continuità sostanziale fra il Pci integrato nel sistema di potere sovietico e i suoi successori convertiti al mercato e ai successi della finanza; la sinistra invece fa un discorso personale parlando di crimini che mettono a rischio l’assetto democratico. Uno biasima una vicenda politica scandita da fatti corposi (su cui i protagonisti, con una reticenza analitica che dura tuttora, non hanno mai fatto una reale autocritica), gli altri, coadiuvati da una interminabile sequenza di processi alla persona e alle sue aziende, delegittimano in termini penali l’avversario trasformandolo in nemico.
La via giudiziaria come arma politica
È un’asimmetria che conta: i successori del Pci con il loro vario seguito di amici (Di Pietro, Orlando) hanno usato la demonizzazione anche giudiziaria come un’arma ideologica in più che, in assenza di una visione dell’interesse nazionale e di una conseguente attraente proposta politica, ha funzionato per un quarto di secolo da perno, efficace e comodo, di ogni strategia elettorale. Il prezzo pagato dal sistema politico italiano, è stato pesante: la delegittimazione di una parte si è ribaltata sull’intero sistema che non ha mai goduto di un condiviso riconoscimento popolare ed è vissuto, trascurando la sostanza politica finita in stallo, sul contrasto di leader percepiti come campioni di un torneo per nulla cavalleresco.
Ciò ha limitato l’agibilità politica rendendo, tra l’altro, impossibili accordi tra i partiti tanto su riforme di rango costituzionale (o anche solo elettorale) quanto su patti di governo da stringere in condizioni straordinarie: Letta, fatto primo ministro di un governo di coalizione con Forza Italia dopo un voto privo di chiari vincitori, non tutela Berlusconi, partner di maggioranza, che il Pd vuole cacciare dal Senato con sforzate interpretazioni giuridiche e preferisce surrogarlo con Alfano pensando di avere vita più facile: in un paio di mesi arriva Renzi e gli spiega l’errore.
Il nuovo nemico: Salvini
Le elezioni del marzo 2018 con il trionfo dei 5Stelle rimescolano le carte: Berlusconi, passato attraverso i servizi sociali e ridotto a forza politica minore, è riscoperto come faro europeista. Ciò svela la strumentalità della passata demonizzazione, ma nello stesso tempo, senza alcun ritegno, innesca la campagna contro un nuovo pericolo: avere nel mirino un nemico crea danni alla politica ma è un ottimo surrogato per una strategia che manca e un’azione politica che si contraddice (vedi l’epopea di Zingaretti). Salvini, reduce da un cospicuo successo elettorale, è un bersaglio perfetto anche perché, difendendo l’autorità dello Stato cui rivendica – come accade in ogni Paese cosciente di sé, vedi Ventimiglia o Ceuta – le decisioni sui confini senza cederle a scafisti e Ong, fornisce carburante a quell’idea di superiorità morale che attanaglia la sinistra.
Salvini, però, come nemico dura poco: quando Draghi forma il suo esecutivo e la Lega sceglie di farne parte, il Pd scopre che dipingere come minaccia per la democrazia il leader di un partito che è partner di governo suona un po’ stravagante. L’infelice Letta finge di non capirlo pur di non perdere un buon argomento di propaganda, ma quasi subito si ritrova oltre la soglia del ridicolo. Tutto ciò significa che è finito il tempo delle demonizzazioni e che il Pd decide di far politica con mezzi usuali, senza sponde esterne e tattiche discriminatorie? Niente affatto.