Su YouTube si trova facile: in una intervista del 1986 ad Enzo Biagi, un Gianni Agnelli al massimo della forma sfotteva il Corriere della Sera (che si era appena ricomprato): “Mi paghe… che il giuoghnale ha fatto tutta la sua paghabola, da Albertini a Tassan Din… il ghuppo non egha da compghaghe, egha da… ghuaccattaghue…”. Delizioso, sublimemente snobistico. Una quarantina d’anni dopo, fortuna sua, l’Avvocato non ha fatto in tempo, ma probabilmente se lo immaginava, a constatare come il “Cogghieghe” abbia fatto molti passi avanti: sul ciglio del baratro, da dove sfida Repubblica (posseduta dai suoi discendenti) sul campo più congeniale, quello del ridicolo wokettaro: adesso lanciano un non si sa bene cosa, un prontuario, un manuale, un corso base, e meno male che è base, sul linguaggio inclusivo che sarebbe scrivere in modo ortodosso, non sessista, pronomi asterischi vocali invertite, quelle cazzate lì.
Sul wokismo demenziale abbiamo già scritto le millantamila volte, non è che c’è bisogno di tornarci; basterà notare che una mania, o moda, in America già un po’ col fiato corto, qui viene importata con patetico ritardo, il che per un giornale è il colmo. Ma forse questi si illudono, nel loro delirio di onnipotenza (chi li legge più, ancora? Quale residuo ruolo di potere istituzionale mantiene ancora un Corriere?), di arginare il ciclone “Trusk”, come lo chiama Riccardo Ruggeri, a dire l’inquietante Frankenstein antopoliticamentecorretto fra Trump e Musk. Sai questi come tremano, già Pelù e la Gabanelli, e anche don Ciotti, hanno mollato X. E va beh, ciascuno muore delle sue illusioni preferite. Abbondano, purtroppo, le scuole e i corsi di scrittura “creativa” che non sono niente, non hanno senso, scrivere è un’arte, un talento, o ce l’hai o fai altro, anche nel giornalismo, che può benissimo diventare letteratura, “se sai scrivere, scrivi” diceva Giorgio Bocca. Ma l’intento del wokismo parolaio, anche questo ci siamo stancati di ripeterlo, è insufflare la Corea del Nord per via lessicale, semantica. Il corso base non si limita al modo di scrivere, o meglio di non scrivere, perché quella non è più scrittura, gli articoli, entra nelle email private, nei messaggi privati e questo indica una precisa volontà di candeggiare il cervello dei giornalisti. Come se non fossero già fin troppo assuefatti, ovvero ipocriti. E questo non lo puoi scrivere, cioè non lo puoi dire, cioè non lo puoi pensare. Cioè merda.
Luca Ricolfi, intervistato da Giulio Cainarca di “Radio Libertà”, ribadisce l’intuizione precisata nel nuovissimo saggio Il follemente corretto: la dittatura woke parte da linguaggio ma non è solo repressiva, è anche profondamente antidemocratica perché accessibile solo agli strati acculturati, o presunti tali: il basso scolarizzato, le classi umili, la “povera gente” non ci arriva, perché non può arrivarci e tanto meno deve, “parla come mangia” questa gente comune, magari ancora in dialetto, e quindi è tagliata fuori dagli schemi di pensiero, dalle nuove liturgie che partono da una locuzione e arrivano ad una imposizione civile, nel segno dell’aberrazione. Totalmente, odiosamente classista e neppure come gli intellettuali narcisi del gruppo ’63 che con la scusa dello sperimentalismo si ergevano a maestri e cattivi maestri, secondo il vecchio trucco: se non mi capite, gli ignoranti siete voi e gli ignoranti vanno indottrinati, vanno guidati. Da cui la famosa polemica mossa da Moravia, “ma se non vi fare intendere come fate a pretendervi democratici?”.
Qui siamo, per l’appunto, a molti, troppi passi avanti verso il precipizio. Se Montanelli scriveva (senza crederci troppo) “Se non mi capite, l’imbecille sono io”, ora assistiamo ad una rivoluzione copernicana, ma riflessa, come allo specchio: se non capite il woke, le microaggressioni, i codici di comportamento che noi e solo noi dettiamo, siete imbecilli, anche se in verità l’imbecillità al potere è quella nostra. L’intento, questo, forse, vale la pena di ribadirlo, è quello del controllo sociale, di una nuova egemonia culturale, di un leninismo delle coscienze, da allevare, da plasmare, da stravolgere a suon di – scusate – puttanate monumentali, oltretutto espresse in un modo che ricorda la peggiore intelligenza artificiale, quella più frigida, quella levigata, coi labbroni da papera, impronunciabile, improbabile; basti un passaggio (colto da una sarcastica Dagospia, perché noi le fonti le citiamo e se mai siamo noi a farci “vendemmiare”, come diceva Sergio Saviane per dire scippare, plagiare): “L’identità di genere non è da confondere con l’orientamento sessuale, che può essere pansessuale, bisessuale, eterosessuale o omosessuale. Quindi, riassumendo, una persona alla quale è stato assegnato (!) il sesso femminile alla nascita, ma questa assegnazione non corrisponde a un suo “complesso di elementi psicologici…”, può mettersi in transizione come “persona trans” per diventare di genere maschile, magari con tendenza omosessuale e quindi amare un uomo”.
Come diceva, arrotando i coltelli, il “sottohoho” Giovannone al conte Mascetti che gli recitava la supercazzola: “Un ho capito ‘n cazzo!”. Facessero, facessero pure: ogni esagerazione si risolve in saturazione, e questa del woke parolaio è forse la forma più ossessiva e più cialtronesca dai tempi d’Abramo; molto più esasperata dei missi dominici che giravano ad imporre le regole del canto uniforme, affidato alla musica scritta, come comandato da Carlo Magno. L’unificazione, e sottomissione, dell’Europa che, nell’anno 800, sotto il segno dell’unione fra trono ed altare, partiva ancora una volta dalla scrittura: musicale, d’accordo, ma sempre scrittura e dunque pur sempre potere, come insegna il musicologo Guido Barbieri. E il risultato qual è stato? Che, esattamente come negli 8 secoli precedenti, la musica popolare, di tradizione, è continuata come prima.
Tentativi di distruggere la mente con la parola, infiniti, romanzi distopici sulla neolingua quanti ne vogliamo, ma la percentuale di successo annaspa intorno allo zero perché la resilienza umana è pura natura: seppellisce i tiranni e dura. Si tornerà, anzi si resterà, alle scenette di Lino Banfi, anche queste imperiture su YouTube: “Sio Lino… di che sesso sono le tartarughe?”. “Eh? Ma che stai dicendo, non ti capisco, non hanno sesso le tartarughe, sono ricchione, va bene??”.
Max Del Papa, 24 novembre 2024
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