L’arrivo del nuovo governo che ha generato per molti versi una qualche forma di speranza, non può distrarci dalla verità più profonda e radicale di questo periodo: viviamo un tempo liberticida.
Troppo spesso ce ne dimentichiamo. Un numero interminabile di attività, dietro cui c’è qualcuno che per anni le ha portate avanti, sono tenute chiuse forzosamente.
Molte sono già fallite, altre lo faranno. La libertà personale di poter mettere a frutto le proprie capacità attraverso le proprie attività è impedita per decreto. Qualcosa di colossale! E come abbiamo potuto abituarci al coprifuoco? Al coprifuoco, è bene ripetercelo come un mantra. Da più di quattro mesi e ancora chissà fino a quando, ci è impedito di uscire di casa dopo le 22. Ci è impedito di uscire di casa dopo le 22! E le strade deserte delle nostre città, quando ci affacciamo immalinconiti dalle finestre, non fanno che incorniciare la desolazione che ormai sembra essersi sostituita dentro di noi tanto all’ansia quanto alla paura. L’angoscia profonda e radicale, financo sovversiva ma tacita e repressa, che questa situazione genera nelle coscienze di ogni individuo viene sottovalutata in un modo che è allo stesso tempo tragico, ridicolo e irresponsabile.
Ci si scherma dietro coloro che, tragicamente, muoiono ma non si avverte alcuna seria responsabilità verso i vivi. Ci si scherma perché si sacrifica ogni cosa, letteralmente ogni cosa a partire dalla libertà, alla conservazione della vita. È tutto legittimo, anche questo, perché anche questo, tutto sommato, dato il livello di docilità con cui viene accettato, è in fin dei conti un atto di libertà. Accettiamo, in libertà, di rinunciare alla nostra libertà. Anche questa è una scelta volontaria. Allora, le lunghe serate casalinghe che ancora ci si prospettano davanti, potrebbero essere almeno, nella loro avvilente ripetizione dell’identico, un’occasione per leggere un classico assoluto della storia del pensiero, un libro brevissimo che per stazza non metterebbe paura a un bambino, ma che dovrebbe invece inquietare un uomo grande e grosso interrogandoci con il suo pensiero.
Questo libello è Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boetie. È un tale classico che perdersi in riassunti di poche righe sarebbe certo non fargli giustizia, tantopiù che il titolo parla a tal punto da solo che ogni ulteriore spiegazione sarebbe pleonastica: ogni tirannia deve necessariamente fondarsi sul generale consenso, per una ragione o per l’altra, del popolo sottomesso. Basti sapere questo per approcciarlo, e quanto si dice in bandella nell’edizione Liberilibri: scritto presumibilmente intorno al 1550, appartiene a quella eletta schiera di libri che a dispetto della loro brevità hanno lasciato un solco indelebile e fecondo sul terreno del pensiero politico d’Occidente.
Questo scritto – opera di un ventenne – che destò l’appassionata ammirazione di Montaigne e fu il tramite intellettuale dell’amicizia “completa e perfetta” tra i due pensatori costituisce una tra le più penetranti analisi del mistero dell’obbedienza civile: “Come può accadere che in ogni regime, in ogni luogo e tempo della storia, singoli uomini o sparute minoranze riescono a dominare e asservire intere masse?” E, soprattutto, si tengano presenti le parole di Murray N. Rothbard nel suo saggio introduttivo “Una volta instaurata la tirannia, il suo perdurare è consentito e favorito dalle insidiose trappole dell’abitudine che avvezza in fretta il popolo alla schiavitù.” La lettura, ora, spetta all’audacia di ciascuno, nella propria afflitta individualità.
Liberilibri, 28 febbraio 2021