Va tutto bene, si fa per dire. Spezzeremo le reni al calcetto, stroncheremo le riunioni di famiglia, aboliremo le feste di compleanno, massacreremo bar e ristoranti (“ci sarà un costo”, scrive freddamente su Twitter una grande firma del giornalismo economico italiano, come se già stesse esaminando e sezionando professionalmente i cadaveri sul suo tavolo autoptico), ci sottoporremo ogni sera alle incursioni televisive dei virologi cavalieri dell’apocalisse, canteremo sui balconi, non vedremo più partite né allo stadio né in tv, gireremo con la mascherina anche in casa.
Subiremo tutto, deboli come siamo diventati: remissivi e fin troppo rispettosi (per ciò che riguarda il settore privato e la parte produttiva del paese), o invece furbi e comodamente adagiati (per ciò che riguarda le ampie sacche di assistenzialismo e un bel pezzo di settore pubblico).
Resta un solo interrogativo: quale potente narcotico è stato somministrato agli italiani, un tempo descritti come ribelli e indisciplinati? Possibile che – con eccezioni che si contano su poche dita di una sola mano, la principale delle quali è rappresentata da Nicola Porro, il titolare di questo blog – quasi nessuno rifletta su quanto di irreparabile sta già accadendo?
Un suggerimento: nei prossimi mesi, più che guardare al dato aggregato del Pil, occorrerà considerare in modo separato i numeri assoluti della mortalità delle imprese. Sia la mortalità controllata e “eutanasica” (le chiusure di chi è in grado di gestire in modo controllato il fine corsa della propria azienda, per salvare il salvabile), sia la mortalità violenta da fallimento. L’una e l’altra accompagnata inevitabilmente da uno tsunami di posti di lavoro in fumo, accanto ai licenziamenti che comunque scatteranno (a partire dalla finestra compresa tra fine novembre e fine dicembre) per le imprese che proveranno a tirare avanti.