Il Covid innesca la nuova lotta di classe

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Se non ci fosse la barriera invalicabile del senso della misura e di quello dell’umorismo, scriverei in maiuscolo e a caratteri cubitali che serve, qui e ora, una nuova LOTTA di CLASSE.

Non esiste una sola Italia, ce ne sono almeno due. Da un lato, l’Italia del settore privato (imprenditori e loro dipendenti, professionisti, partite Iva): non hanno nessuna protezione, nessuna garanzia, e, per la natura stessa del loro lavoro, devono uscire di casa, hanno necessità di un luogo di lavoro fisico e del contatto con gli altri (clienti o comunque destinatari di servizi ecc). Possono esservi eccezioni, ma la regola è quella per cui un lockdown o una restrizione forte della possibilità di movimento colpisce al cuore la loro possibilità di portare il pane a casa.

Dall’altro lato, c’è un’altra Italia (che ovviamente non ha alcuna colpa, sia chiaro, della sua diversa condizione): è l’Italia dei dipendenti pubblici e dei pensionati, che – bene o male – si trovano oggi, in piena pandemia, nelle medesime condizioni economiche e di garanzia giuridica dei tempi ordinari.

Attenzione, perché a questa seconda Italia si è aggregata (ma qui c’è eccome una colpa, in termini di mancata comprensione degli altri) la quasi totalità dell’”Italia intellettuale”, che – per mille ragioni – è in condizione di percepire il proprio reddito continuando a operare a casa o in situazioni assolutamente protette. E dov’è la colpa? Nel non capire la prima Italia, nel giudicarla, nel disprezzarla. Nel farsene beffe – in qualche caso nemmeno rendendosene conto – descrivendo, com’è avvenuto per mesi e come temo riaccadrà nei prossimi giorni, la “bellezza” del lockdown (con relativo e surreale dibattito su Repubblica se chiamarla “clausura”). Ecco dunque la retorica del “ne usciremo migliori”, le interviste ai vipponi che ci comunicano le loro riletture dei classici (quando va bene) o i loro esperimenti di cucina (negli altri casi).

Ora, non si pretende che tutti comprendano i sentimenti e le paure degli altri. Non si pretende che l’editorialista di sinistra capisca davvero (non ne ha gli strumenti) il dramma del ristoratore che ha dieci dipendenti, è stato chiuso per quattro mesi, e negli altri quattro ha avuto incassi inferiori al livello dei costi fissi che deve sostenere. No, non si pretende che gli intellettuali comunisti (di andata e di ritorno) comprendano il mercato e le esigenze di chi vive esposto alle opportunità e ai rischi della concorrenza, della riuscita o di un fallimento. Ma almeno – questo sì – si richiederebbe a tutti un minimo di rispetto e di cautela nei confronti di chi, se non può alzare la saracinesca del suo negozio, non sa cosa mettere in tavola per se stesso e i propri figli.

Daniele Capezzone, 26 ottobre 2020

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